domenica 30 dicembre 2007

Il Trapasso di Marcello Sacco (Besa editrice) visto da Mauro Marino

Dopo “Salento’s movida” il libro di Armando Tango (alias Teo Pepe) edito da Glocal, veniamo a “Il trapasso” di Marcello Sacco edito da Besa editrice. Un altro impietoso ritratto della città barocca, delle sue vanità e dei suoi rituali. Anche questo un romanzo popolato da personaggi in qualche modo verosimili…

In memoria di Sorriso, innamorato dell’impossibile! (2)

di Mauro Marino

“Siamo cresciuti tutti insieme nello slargo di piazzale Vercelli dove, finchè è rimasto uno sterrato incolto, si poteva giocare a calcetto. Poi vennero gli anni ’90 e le aiuole comunali. Ci siamo sparpagliati. La maggior parte di noi s’era stufata di prendere le birre alla salumeria Spalluto fra il primo, secondo, terzo, quarto tempo di interminabili partite sotto il sole o sotto la luna, davanti a fidanzate platoniche che dopo una certa ora ci guardavano dal balcone”.

Il muscoloso Salvatore Castelluccio detto Sorriso, “pessimo artificere, irruente centravanti della Juvenilia e temibile tamburino della curva sud”, residente storico delle case Gescal di via Torino, è il protagonista de “Il trapasso”, esordio narrativo di Marcello Sacco.

L’eterno immusonito Sorriso - “O perdo o vinco, io sempre sorriso”, (e quel sostantivo nelle sue intenzioni, doveva essere un verbo) disse una volta dopo una batosta con tre reti di scarto in cui però aveva giocato da eroe” - fu uno di quelli che ad un certo punto iniziarono a dare appuntamento in Via Oberdan, migranti dalla periferia a bordo di usurate Px, con in tasca i pacchettini di erba da vendere per finire a tirar su col naso travagliati dall’impossibilità e dalla fatalità di un ‘destino’ mai veramente scelto.

In verità i protagonisti di questa storia sono tanti, raccontati da una voce, un testimone, “fuori campo”, capace di sagacia e di ironica compassione.

Personaggi comunemente rintracciabili in una città di provincia come la nostra Lecce. Tutti abilitati al ruolo, primi attori e comprimari, bestiario naturale della beata e molle solarità di questo meridiano, “cresciuto lontano dalle terre di partigiani e repubblichini”, non uso a cocciutaggini ideologiche, pronto al transumar con i riti e l’indicibile che porta la sopravvivenza e quando Dio vuole il “successo”.

C’è la professoressa Valeria Baragli, moglie dell’avvocato Umberto detto, nelle consuetudini del Foro, ‘melina’, termine noto a chi ha abitudine con il calcio e con le perdite di tempo giudiziarie. Lei, gran donna con tailleur coloratissimi, ne risalta uno rosa confetto, “consumata attrice del varietà accademico”, tra un tè e un Alka Seltzer, consigliata dal fido Licci, “un buon fascista, di quelli che si innamorarono a suo tempo della retorica compassata di Giorgio Almirante”, dà l’assalto alla politica cittadina. “Il potere quello vero, va condiviso. Il piccolo feudo missino non esiste più, il Movimento Sociale ha i giorni contati” e… “ Valeria, se l’operazione riesce, nel partito ci sarà posto per tutti. L’importante è smetterla di raccimolare voti solo fra quattro teppistelli e i loro avvocaticchi”. “Ci vorrà molto olio, Valeria”. E così si fece, forte di 35mila preferenze, in questo (ormai ex) feudo democristiano, la professoressa ottenne un incarico governativo, era il 1994, anno dell’avvento di Berlusconi.

Con lei, sua figlia Elena, imbronciata ed eterna insoddisfatta, “una bellezza così bianca, quasi diafana, che da vicino faceva impressione”, “corpo forgiato a modiche quantità di anoressia nervosa oltre che nei migliori fitness club” non ha dubbi, “ai banchi (dell’Università) preferisce gli spalti dello stadio. Non li scalda, la scaladano”. Sorella di Ettore, fidanzata di Arturo e amante svogliata del nostro Sorriso che per amor suo, sì per amor suo…. ci fa ‘visitare’ anche il Costa Rica, approdo di molti salentini che lì trovano rifugio ed esilio per ‘marachelle’ più o meno grandi o per trasporto naturale all’esotismo.

Il resto della scena, rocambolesca, esilarante ma mai inverosimile, è occupato da camerati più o meno integristi: Gianni Burzo servant d’Ettore, macellaio e “collante di mondi distanti”; il giornalista Calamari e il medico legale Cazzato; Lenticchia, l’americano titolare di Fondazione omonima e Rosaria Villani.

Inconsapevoli e disarmanti nella loro scioccheria troviamo Sabrina, vera fidanzata di Sorriso, Gaetano e lo spacciatore Scarpia che nasconde la cocaina nelle teste delle bambole delle ‘sacre figliole’.

Dall’altro lato, diciamo così…, il sindaco Gargiulo, democristiano poi di “sinistra” leader della lista “Idee in Comune”, imparentato con la lady missina e suo nipote Ettore, che si fa assessore e “volto nuovo” della programmazione culturale con una “folla di idee” che covava la novità nel “vecchio”, nella tradizione insomma, chiave di volta del ‘rilancio’… Cose che sappiamo!

Fili di una storia in cui è facile darsi al gioco del “chi è?”. Buona lettura!

fonte Paese Nuovo del 29/12/2007

sabato 29 dicembre 2007

Giorgio Scianna ... Fai di te la notte, Einaudi, 2007














Partiamo da una domanda che possa aiutare il lettore a comprendere il “back-stage” del processo creazionale relativo al tuo romanzo d’esordio Fai di te la notte. Qual è stato il tuo progetto iniziale circa il contenuto, la struttura, le vicende da raccontare? Come sei arrivato poi alla redazione finale del tuo lavoro?
Volevo scrivere la storia di un segreto in una famiglia, in una coppia. Di questo segreto, nascosto da un marito dietro una porta, sapevo solo due cose: che si sarebbe aperto nella vita della moglie come una crepa che non si può fermare, e che doveva essere un segreto degno. Un segreto che non svilisse di per sé il loro rapporto. Mi interessava capire come il non detto, le zone franche di ognuno di noi possano esplodere anche se innocui. Lavoravo su questo, su tradimenti e nascondimenti. Più in là ho capito quale dovesse essere il segreto, l’unico possibile. Poi il resto. La fatica più grossa che ho incontrato nella costruzione della struttura e anche nella redazione finale di questo libro, è stata il perfezionare gli incastri, gli snodi e i linguaggi delle tante parti del romanzo.

In copertina c’è una frase che fa riflettere molto: “Non c’è fedeltà che nel tradimento”. E’ una scelta casuale, o una piccola chiave che volutamente consegni al lettore per farlo entrare da subito nel mondo della tua scrittura?
Quella frase è mia. Adam Kasev non esiste. Avevo bisogno di lui solo per quella traccia. Mi piacciono gli ex-ergo ma devono essere precisi e non svelare al tempo stesso. Una chiave, una rotta possibile che il lettore può seguire nel romanzo.

Il tuo romanzo, scritto davvero bene (mi ha ricordato Rami secchi di Mario Soldati), parla di segreti, piccole menzogne in un universo familiare (quello di Sergio, Clara, papà Giò) dove il silenzio, le assenze, la fanno da padroni. Certamente nella vita coniugale, zone d’ombra talvolta ce ne sono più del dovuto e spesso sfociano in amarezze insostenibili. Ma alla fine sembra che tu propenda più ( tra le righe scrivi che la famiglia è un organismo che divora tutto,anche le ferite e che tutto poi digerisce normalizzando e stabilizzando ogni turbamento) verso un elogio del matrimonio. Cosa ne pensi?
Si è parlato di noir per questo libro. Penso che sia qualcosa che riguardi l’atmosfera che c’è in quella piccola casa. E più ancora la costruzione della tensione e della suspense. C’è anche un senso di “incombente”, un’indagine per scoprire la verità di quei segreti, di quei tradimenti. Non è però un noir in senso pieno, anche se il centro del racconto è un mistero il tessuto più profondo del romanzo va alla ricerca di altre strade.

Vivi per una vita accanto a una persona che credi di conoscere e poi scopri, quasi per caso, un suo lato, che mai e poi mai avresti potuto immaginare: Sergio, ha un segreto, vecchio di centinaia e centinaia di anni, che lo rende diverso, tanto da non potersi rivelare alla luce del sole. Ed ecco che inserisci nel plot del tuo romanzo, una specie di giallo, con delle nuances da noir … ce ne potresti parlare?
Tra Clara e Sergio c’è un rapporto profondo: affetto e complicità sono rimasti negli anni. Ma ci sono anche i tanti tradimenti, le tante fughe. In qualche modo ci sarà un superamento, ci sarà un nuovo equilibrio, ma ho qualche dubbio che tutte le ombre si allontanino.

Scendiamo un po’ più nel personale… Ci sono stati autori nell’ambito della letteratura italiana o internazionale, che, diciamo, ti hanno influenzato, o che ti hanno dato qualcosa, ti hanno entusiasmato, fatto crescere?
Ho sempre avuto frequentazioni letterarie molto eterogenee: la letteratura americana contemporanea (Roth, McCarthy Fox per citarne alcuni), alcuni autori mitteleuropei (Bernhard, Kundera, Svevo), tutto l’ottocento (i Karamazov sono la lettura che mi segnato più di ogni altra) e la folla di scrittori israeliani. Spesso faccio sortite nel mondo noir (Bunker e Manchette sono stati compagni di viaggio). L’ultimo vero entusiasmo di fronte a una lettura risale a qualche anno fa: Franzen con le sue Correzioni ha lasciato il segno.

Dove pensi che stia andando il mondo delle lettere oggi? Possiamo archiviare ormai come archeo-semiotica, la parola impegno?
In Italia è difficile trovare una mappa per orientarsi. Gli autori importanti sono monadi, isole distanti per età e mondi. Forse è meglio così. Quanto all’impegno, è ancora difficile capire se ci sarà un effetto Saviano. Quello che è certo è che in giro la richiesta di una letteratura che parli anche di quello che ci sta intorno, anche con forme ibride di narrazione, è più forte che mai.

Giorgio Scianna è nato nel 1964 a Pavia, dove vive. Un suo racconto, Il Juke-boxe, è apparso nell’antologia Anticorpi (Einaudi, 1997). Fai di te la notte, sempre per i tipi di Einaudi, è il suo primo romanzo

fonte www.musicaos.wordpress.com

venerdì 28 dicembre 2007

Nicolau Eymerich, Francisco Pena, Il Manuale dell'Inquisitore, Fanucci

Da non molto tempo si assiste alla ricca produzione di volumi, opuscoli, nonché periodici che con generosa verbosità e superficialità tendono ad illustrare una serie di pratiche volte ad invocare indistintamente angeli e demoni, con tanto di nomi, rituali, ora e data in cui entrare in contatto con queste entità, ovviamente con un unico sottofondo di senso che è quello di matrice consumistica, lontana dai più seri e complessi studi teologici. Tra i più autorevoli esponenti in questa branca dello scibile umano (non magia cerimoniale, ma angelologia e demonologia) siamo certi di non sbagliare se facciamo nomi come Giorgio Gozzelino, e Giovanni Battista Proja. E parliamo di argomenti che analizzano la sfera di potere e controllo di tali realtà ( ci si può credere o meno nella loro esistenza) nella vita dell’uomo. Ma nella Storia della Chiesa, sono esistiti poteri ben più terreni, implacabili, incorruttibili, astuti, dove il dogma della parola rivelata da Nostro Signore Gesù Cristo, doveva servire a indagare, sorvegliare e punire, al di là di quisquiglie in merito a possibili abusi di potere (non è un gioco di parole) e atrocità magari ingiustificatamente perpetrate ai danni della libertà di professare una fede diversa, da parte di qualche povero rincitrullito, mentecatto o intransigente “infedele”, nell’esprimere un parere scomodo e/o dissentire anche solo labilmente in maniera scettica, su qualche verità presente nelle Sacre Scritture. Parliamo dell’Eresia come problema, veleno, e di come l’Istituto dell’Inquisizione l’abbia affrontata e combattuta. Certamente la Chiesa ha chiesto scusa, per orrori di questo tipo commessi nei secoli precedenti, e pertanto possiamo citare una fonte tra tutte, che è quella per i tipi di San Paolo, dal titolo Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, della Commissione Teologica Internazionale, con una presentazione di Bruno Forte. Quando parliamo di Inquisizione, facciamo riferimento ad una nano-organizzazione di uomini pii, dalle alte capacità investigative, che usano a loro piacimento il popolo come strumento di calunnia con ricatti e altri riprovevoli sotterfugi, moralmente discutibili, fortemente propensi alla menzogna e all’inganno pur di ottenere la Verità, e che sia una verità conforme alle regole date da Nostro Signore si intende. Leggendo il Directorium Inquisitorium, scritto da Nicolau Eymerich alla fine del XIV secolo, testo solo per pochi intimi, e per la precisione a solo uso e consumo di vescovi e inquisitori stessi, ci si può rendere conto non solo della meticolosa precisione con cui vengono catalogate e descritte le diverse forme di eresia da abbattere (Adamiti, Setiani, Fraticelli, Scismatici e chi più ne ha più ne metta), ma anche la perfetta macchina di controllo, volta alla distruzione fisica, morale, spirituale del soggetto candidato all’esame della Santa Inquisizione, realizzata grazie all’utilizzo di interattivi link tra sistemi di codici giuridici diversi, come il diritto volgarmente definito civile e quello più alto che è il canonico. Una vera e propria morsa d’acciaio. Ma non è tutto…I problemi che l’inquisitore solleva nella maggior parte dei casi, non riguardano questioni del tipo se durante l’elevazione del calice contenente il corpo di Cristo durante la celebrazione liturgica, il fedele debba inginocchiarsi perché altrimenti favorisce il demonio; oppure la disputa in merito ai rapporti di consustanziazione tra Padre, Figlio e Spirito Santo in un’unica sostanza e del come e perché interviene tale sostanza Una e Trina nella vita del fedele; se e come produce Grazia il suo procedere per imperscrutabile volontà divina … no … niente di tutto questo… l’obiettivo da perseguire mira a mondare il putridume delle anime ormai perse, perché lontane dalla grazia di Dio, a sconfiggere la cancerosa bestemmia della lussuria che spinge i corpi di questi dannati a giacere tra lenzuola immonde, procreando abominii attraverso l’unione delle loro carni, e ancora a relegare i turpi relapsi in sperdute prigioni, figuri obliqui che prima abiurano negando di essere eretici, per aver salva la vita, e poi come per bere un bicchier d’acqua, rinnegano le loro stesse menzogne ritornando sugli oscuri sentieri del Maligno. E si prescrive la massima severità, poco per i nobil uomini, e assai per i miserabili (una lotta di classe per ottenere la salvezza dell’anima …altro che indulgenze…), e tanto più ferma è la mano del santo giudice quando deve convincere ed esortare il peccatore alla confessione, quanto più forte diviene in questi il desiderio di redimere, e di conseguenza tanto più dolce e soave deve essere pertanto la sua voce: “Figlio mio carissimo, tu parli da buon cattolico, poiché sostieni di credere in ciò che ordina la Chiesa. Ma ti contraddici nei fatti, poiché resisti in contumacia. Vogliamo vederci chiaro nella tua fede. Vogliamo sapere se camminavi nella luce o nelle tenebre. Ecco perchè ti abbiamo citato” (pag.93). Louis Sala-Molins mette a disposizione di tutti coloro che si interessano dell’Inquisizione, il trattato sistematico scelto da Roma, per la prima volta pubblicato nel 1503 e poi successivamente per volontà del Senato dell’Inquisizione romana nel corso del XVI e XVII secolo. Il manuale in oggetto segna il diritto, stabilisce la procedura che si concreta in delazione, processo, tortura e confessione e soprattutto da, sulla base dei testi delle Scritture o dei Padri della Chiesa, una riposta chiara a tutti i problemi che i servitori più devoti dell’ordine cattolico romano dovevano risolvere.

lunedì 24 dicembre 2007

La navigazione del Po di Andrea Di Consoli

L'ultimo lavoro poetico di Andrea Di Consoli dal titolo "La navigazione del Po" per i tipi di nino aragno editore, con postfazione di Federico Francucci, è un'opera veramente densa di contenuti e molto, molto interessante. La prima cosa che salta subito agli occhi, dopo averne terminato la lettura, è che Di Consoli informa della sua abilità di narratore, il percorso di ricerca poetico che da tempo ormai porta avanti con forza. Chi è abituato a una certa tipologia di ricerca stilistica e semantica nell'ambito del mondo dei versi, penso a certa poesia di sanguinetiana memoria, ma perchè no anche alla grande poetessa Marina Pizzi che gioca e crea con le parole e i suoni splendidi componimenti, potrà trovarsi come disorientato, non tanto perchè sia esiguo o incerto il versificare di questo poeta, ma perchè la profondità dei contenuti è di rara autenticità, perchè non prende in giro i suoi lettori, perchè la poesia di Di Consoli, è vera, le sue cicatrici sono reali, i suoi malumori nascono da un abisso di chi nulla ha lasciato alla finzione, le sue gioie non sono goffi voli, ma prese di ossigeno a pieni polmoni, come quando per anni il proprio orizzonte interiore sia pieno di nuvole grigie e poi all'improvviso uno spicchio di sole, ti lascia sperare che nulla ancora è perduto. Sembra che la "Navigazione del Po" sia una sorta di pesante ancora che cerca di legare alla realtà, quella nuda e cruda, la leggerezza e bellezza lirica del nostro, tanto che come effetto collaterale produce una sorta di paranoia di controllo totale verso le ansie, le paure e i sensi di colpa, e il dover essere in un certo modo, che nasce dall'attesa di un qualcosa all'orizzonte del futuro che per certo riserva sempre delle incognite, delle sorprese, mai controllabili, mai gestibili ... Popper non aveva poi sbagliato a dire che la vita è un continuo risolvere problemi... peccato che non abbia mai dato una maggiore sicurezza al nostro incedere. Opera lontana anni luce da "Discoteca" edito da Palomar qualche anno fa, l'ultima fatica di Di Consoli, è una condensazione di sistema del suo tracciato biografico, del suo odio/amore per il Sud (nel caso specifico S.U.D - senza una dimensione), della sua mania per l'elencazione di oggetti quotidiani, quelli della sua tradizione esistenziale, sicuro appiglio per non perdere la bussola.

Dalla sua raccolta:


Exit Sud

(Salutate il padre,
salutate la madre.
Andate via questa notte. Lasciate la terra chiamata Sud.
E non tornate,
non tornate quando muore il padre e la madre)




fonte iconografica

http://letteratitudine.blog.kataweb.it/files/photos/uncategorized/2007/07/15/foto_andrea.jpg

domenica 23 dicembre 2007

Merry X-Mas




















Auguri di buone feste a tutti quelli che conosco e che non conosco, a quelli che non vedo da anni o che ho conosciuto di sfuggita, che ho recensito o che mi hanno colpito in qualche modo, a quelli che mi hannno lasciato ferite profonde nel cuore, che mi hanno regalato gioie incredibili, per come sono fatti o per quello che hanno scritto o detto ... magari mi sono scordato di mandare il mio sms di buoni auspici a qualcuno, ma comunque auguroni a tutti ... io intanto vi sto preparando una bella sorpresa ...


fonte iconografica
http://members.iinet.net.au/~michaelbolger/mp3/evil%20santa.jpg

venerdì 21 dicembre 2007

Tabula Rasa 06 - La rivista letteraria tutt'altro che invisibile











Tabula Rasa è la rivista che la Besa Editrice dedica dal 2002 alla scrittura di ricerca narrativa e poetica. Prosegue la collaborazione con il gruppo de iQuindici, la sezione dedicata alla narrativa accoglie una selezione dei racconti già comparsi sulla loro rivista Inciquid, in particolare gli autori ospitati sono Gabriele Gismondi, Sandra Risucci e Paolo Ferrari. La sezione dedicata alla narrativa si completa dei racconti inediti di Gabriele Dadati, Gianluca Gigliozzi e Michele Lupo, oltre che dall’esordio di Marco Montanaro, dal titolo "Gli ultimi giorni di martirio del Signor B.". Nella sezione dedicata alla critica è ospitato un interessante intervento di Christian Sinicco, dal titolo "La nuova poesia in Italia? ouverture sulla differenziazione", nel quale vengono esaminati gli autori della recente poesia italiana; insieme a questo gli interventi di Luciano Pagano, Elisabetta Liguori e Grenar, che con Giuseppe D’Emilio descrivono dall’interno l’esperienza di VibrisseLibri. Nella sezione poesia sono ospitati quattro autori, Fabio Franzin, con il poema inedito intitolato “Sull’orlo della strada”, Luigi Nacci, con una selezione di poesie scritte tra il 2004 e il 2007, Claudio Pagelli e, per la prima volta in rivista, Luigi Massari. Le illustrazioni di questo numero sono di Orodè.

martedì 18 dicembre 2007

Diana Chuli a Nardò















Rassegna
INCONTRI AD ARTE

CAFFE’ LETTERARIO … A TEATRO

NARDO’ INCONTRA
LA SCRITTRICE ALBANESE
DIANA CHULI
A cura di BESA EDITRICE


TEATRO COMUNALE C.so VITTORIO EMANUELE II – NARDO’ (LECCE)

GIOVEDI’ 20 DICEMBRE 2007
h.17,30



Dialogheranno con l’autrice ANTONIO ERRICO e SILVIA FAMULARO



Torna in Puglia la scrittrice albanese Diana Chuli autrice del volume edito da Besa “Scrivere sull’acqua”, un romanzo ambientato tra Tirana, Bari, Otranto e Valencia, e che racconta l’Albania stritolata dal comunismo. Ne racconta le fughe, la tragedia, l’angoscia del traffico degli esseri umani attraverso gli occhi dei protagonisti Pablo, Carlo e Cristina. A breve uscirà in Italia sempre per Besa editrice, l’ultimo lavoro della Chuli dal titolo “Angeli Armati”. Diana Chuli ha vinto proprio alla fine dello scorso novembre il prestigioso premio letterario “Scrittore dell’ anno in Albania 2007" che viene consegnato dall’associazione degli editori albanesi nel cui comitato scientifico ci sono 18 membri, tutti rigorosamente esperti di letteratura e editoria. Un premio difficile, che lo hanno ricevuto fino adesso Kongoli e Koreshi. Un premio che per una donna, in Albania, ancora oggi non é facile ricevere. L’incontro con l’autrice a cura della Besa editrice, e che prevederà tra l’altro l’esposizione di opere letterarie italo-albanesi, previsto per il 20 dicembre 2007 alle ore 17,30 presso il Teatro Comunale di Nardò in Corso Vittorio Emanuele II è stato promosso dal Comune di Nardò, Unione Europea, Città di Mesagne, Città di Noci, Repubblica di Albania, Interreg Italia Albania

DIANA CHULI (Tirana 1951), giornalista, ha scritto i romanzi Eëri i largët (La voce lontana), 1981; Rrethi i kujtosës (Il circolo della memoria), 1984; Dreri i trotuarëve (Il cervo dei marciapiedi), 1990; Reguiem, 1991. Per Besa ha pubblicato “Scrivere sull’acqua” del 2002.
Da alcuni suoi testi sono state tratte sceneggiature teatrali. Collabora a diverse testate culturali, ha tradotto diverse opere di Jean Paul Sartre, Andre Jide, Simone de Beauvoir ed è stata premiata come “Scrittrice dell’anno 2007” dall’associazione degli editori albanesi.

domenica 16 dicembre 2007

Quel qualcosa in più










Il mio nome è Ertrit Omeri. Dieci anni di carcere a partire dal 1980 in Albania, per avere tentato di sfuggire a fame e miseria. Poi il salto nel buio! Dieci i milioni che ho pagato per arrivare in Italia, dieci le cicatrici sul mio corpo, due dovute allo sbarco, otto come omaggio dei miei traghettatori. A Durazzo aspettano ancora mie notizie. Nereida, avrebbe preferito morire di fame piuttosto che sapermi lontano da casa. La dignità era un lusso che non potevamo di certo permetterci. Non più! Da circa due settimane, mi trovo in un centro di permanenza temporanea a Otranto. Tra me e la vita ci sono tre transenne, due cancelli, un muro di dieci metri, la postazione della Guardia di Finanza e… il vuoto. Oddio… non avrei di che lamentarmi! La mattina faccio regolarmente colazione con del caffè e delle piccole brioches, due pasti caldi, a pranzo e a cena. Coperte, lenzuola, federe dei cuscini, te le fanno cambiare ogni 48 ore. I servizi igienici sono una meraviglia! Non è però questo che mi spaventa. No! È quel baratro che mi separa dal rifarmi una vita, avere dei soldi per comprare una macchina, un telefonino, per regalare un po’ di gioia a Nereida… povera donna! Era bellissima quando l’ho conosciuta. Aveva compiuto da poco diciott’anni. Io ne avevo quindici di più, diploma professionale in tasca e un lavoro come tornitore in una piccola impresa artigiana! Per quel che ho potuto non le ho fatto mancare nulla. Quello che non si riusciva ad avere dalle nostre parti, era una patria, uno Stato, delle politiche salariali, professionali, per dare insomma un briciolo di speranza a quelli che si spaccavano la schiena dalla mattina alla sera, almeno per poter sopravvivere con qualche spicciolo al mese. Se avessi tentato di resistere a tutto questo, mi sarebbe toccato stringere la cinghia così forte da venirne alla fine soffocato. Alla fine presi una decisione. Un primo tentativo di fuga. Riuscirono a beccarmi subito. Preso di peso, portato in commissariato, e pestato a sangue. Da noi, quando sei nelle mani degli sbirri, in tasca ti puoi ritrovare di tutto, senza nemmeno accorgertene. Tirarono fuori una bustina di coca. Come volevasi dimostrare. Ce l’avevano infilata loro. Non possedevo un centesimo bucato per corrompere i miei carcerieri. È così che funziona, mi ripetevo! È così che funziona! Le bollette del telefono, della luce e del gas che ti arrivano a casa possono diventare anche carta straccia… a patto che tu conosca qualcuno, che sia amico o parente di, e che abbia soprattutto un bel gruzzoletto da mettere a disposizione per toglierti dalla merda! Mi rendo conto di essere stato un’eccezione alla regola… Quando dissi a Nereida, durante una delle sue visite in carcere, che non appena fossi uscito da quel posto, sarei andato a tentar fortuna in Italia, s’incupì… all’improvviso. Di botto! Per due giorni non venne più a colloquio. Devono essere stati due giorni d’inferno per lei. Ritornò da me che sembrava invecchiata di almeno vent’anni. Mi disse soltanto “Ti amo Ertrit… va bene anche così! Ti aspetterò, e quando ritornerai, io verrò via con te… e non accetto ma…”

Avevo scontato tutto ciò che c’era da scontare. Ero un uomo libero, finalmente, e l’indomani sarei uscito. Mi aspettava una nuova vita. Ma a che prezzo… Sapevo solo una cosa: Nereida era con me, nella buona e nella cattiva sorte, finchè morte … e il resto lo porto tutti i giorni con me da quando ci siamo sposati. Al tasso del 70%, mi feci prestare dieci milioni pur di andarmene. Non appena fossi stato in grado di lavorare, ogni mese avrei dovuto restituirne circa il 18%. Partimmo alle 23,00 di una meravigliosa notte di settembre. La luna che si stagliava alta nel cielo, aveva il viso di mia moglie. Sarei riuscito a regalarle un giorno, un pezzo di paradiso! Nel cuore avevo un cielo in tempesta. Ora sono qui. Gioco a scacchi con il mio compagno di stanza Gelal, e a volte con lui parliamo del comunismo in Albania negli anni ’80. Si stava meglio quando si stava peggio? Mi importa soltanto strappare dalle braccia della solitudine, la mia donna, che per ogni istante lontana da me ha versato una lacrima di sangue sul suo cuore. Non mi resta che aspettare il permesso di soggiorno. Guardo un po’ di Tv. I Quiz Show di Mike Bongiorno, o quelli di Iva Zanicchi. Su di me hanno l’effetto di un buon sonnifero! Immagino di partecipare a uno di questi giochi, e vincere milioni e milioni, così da poter pagare tutti i debiti, e ritornare in patria a fare il pascià! Ma soprattutto quello che mi interessa più della stessa vita, è avere la speranza di riabbracciare lei. Qui, ogni giorno faccio la stessa vita. Stesse persone che si aggirano come fantasmi per quei pochi metri quadrati, in silenzio, pensando a quando ritorneranno con qualcosa in più tra le mani, dai loro cari. In silenzio fanno la fila allo spaccio per delle sigarette, in silenzio bevono i loro caffè, in silenzio aspettano qualcosa che gli dia un po’ di speranza in più, una lettera, un pacco, una telefonata. In silenzio… perché il vuoto che senti dentro, ti fa sentire freddo, tanto da volerti prendere un po’ più cura di te. Gelal dice che il popolo albanese n’è uscito sempre a testa alta, e che i suoi progenitori erano forti guerrieri. Io non ho più voglia di niente. Non ti danno da leggere nemmeno un giornale. D’accordo, pensano che tu non sappia l’italiano, ma il cervello ha bisogno di distrarsi, non possono recidere completamente il tuo cordone ombelicale con il mondo. Io, per parte mia, non ho più voglia di niente. Vorrei solo scapparmene, fuggire da questo manicomio… voglio solo il permesso di soggiorno, datemi questo cazzo di permesso di soggiorno e la faccio finita. Me ne sto subito buono buonino! Poi mi trovo un lavoro, e faccio venire la mia Nereida… mi manchi tanto…

Non ce la faccio più…

Non ce la faccio più…

Ertrit Omeri si è suicidato, impiccandosi, nella notte tra il 13 e il 14 novembre 2001, in un centro d’accoglienza profughi nel sud della Puglia. Avrebbe ottenuto il suo permesso di soggiorno due giorni dopo. Questa è una pagina del diario, trovata nella sua stanza. Il compagno di alloggio, Gelal, ha dichiarato alle forze dell’ordine di non aver sentito nulla. La moglie, Nereida Allushaij, appresa la notizia, tentò di togliersi la vita. Venne bloccata in tempo. Fu ritrovata circa due settimane dopo, a dieci chilometri di distanza dalla sua abitazione, nelle campagne limitrofe di Durazzo, assassinata con due colpi di pistola. Il marito non aveva pagato i suoi debiti.

Fonte iconografica http://www.kaiserjaeger.com

Fonte testuale di Stefano Donno da www.opifice.it

venerdì 14 dicembre 2007

Alessandro De Santis, Il cielo interrato
















Alessandro De Santis, Il cielo interrato, Joker (Novi Ligure, 2006)

Poesia fatta d’urgenza spontanea. L’autore della silloge poetica Il cielo interrato, Alessandro De Santis, apre le porte dell’haiku senza farsi schiacciare dalla ripetizione dell’accesso. Non esiste conformità con quanto è stato già visto, nella maggior parte dei casi. Si legge nuovo, e del nuovo. Dove la freschezza del verso immerso in un’urgenza che alza a valore predominante il carattere sott’inteso della spontaneità coglie le mani di tutto il mondo – lettore. Testi brevi, dunque. Essenziali quanto netti. Il linguaggio è permeato da letture, certamente; eppure è libero da schemi. Gli spazi nudi si sono tolti vestiti, anzi i vesti mai li hanno avuti. Ripercorrendo il filo del volume, si potrebbe scegliere una prova che meno somiglia al resto del corpo testuale. Che, per esempio, Quaderno di riflessi, una poesia apparentemente piana, versi simbolicamente facili, non è fatta di un solo momento. Anche se non conosce “paragrafi”. “I sensi bruciano il sangue / Sospiri tumultuano tra le dita / l’inquietudine è un corallo sotto il ghiaccio / onde spietate sotto i portici / scarpe spaiate senza nome / Una qualche gioia del pensiero / nulla denudato in insonne attesa…”. In un intervallo dove le musiche preferite di De Santis evidentemente stanno tacendo, è possibile carpire il senso del dentro che muove la forza – volontà di scrivere. L’irrequietezza agita la mente di chi scrive. La poesia si fa largo dove è stretto passare. Sotto il freddo c’è tanto altro da conoscere e percepire, dopo aver sentito e ingurgitato. Alessandro De Santis ha davanti a sé altre creazioni a venire, sicuramente. Nella pubblicazione si legge che la gioia di esprimersi senza ridere per forza per il momento non è affatto pronta ad arrestarsi. I riferimenti dell’autore romano sono lontani geograficamente e vicini idealmente. Tutto in favore di altre creazioni da destinare a un futuro prossimo e dolcemente scalpitante.

NUNZIO FESTA

fonte iconografica
www.recsando.it

mercoledì 12 dicembre 2007

Stefano Cristante e Simone Giorgino alla libreria Icaro di Lecce


















LIBRERIA ICARO
Presenta

Sabato 15 dicembre 2007

Libreria Icaro, via L. Romano, Lecce
h. 19,30

Stefano Cristante
Visite Inattese (Besa editrice)


Presenta l'autore Luciano Pagano


Le composizioni poetiche di Stefano Cristante, in questo suo Visite Inattese hanno una modalità di struttura compositiva piuttosto varia, dove vengono a trovarsi diverse situazioni redazionali in bilico tra il Diario Poetico e il Poemetto. Il corpus poetico complessivo si articola comunque in quattro sezioni Tipi di cose, Anatomie, Atti di dolore, Amenità. Rientranti nella nuova tendenza della modern american poetry, dove i canoni della metrica si desemantizzano, per creare una prosa poetica più adatta all’attività orale performativa. E di fatti Cristante lo fa a esempio nel componimento And for what a teatro. Il retroterra contenutistico dei componimenti di Cristante sa di Fiori del Male, anche se la capacità descrittiva dei passaggi interiori, si trasforma in un modus poetico incentrato sulla tensione tra il desiderio di comunicare con e per l’altro, e le paranoie esistenziali da solitudini quasi auto-imposte, come se l’altro sia creatura atroce da cui scappare.
Un’opera soprattutto ironica, sarcastica, sardonica come lo potrebbe essere il risus di un Max Stirner, dove la Poesia si prende in giro e prende per i fondelli, maggiormente chi la reputa monoliticamente sacrale.

STEFANO CRISTANTE, è docente di Sociologia dei fenomeni politici e direttore dell’Osservatorio di comunicazione politica (Ocp) presso l’Università del Salento. Nel catalogo Besa ha pubblicato Da Vendola a Prodi,in cui vengono analizzati i media nazionali e locali nel corso delle elezioni regionali del 2005 e delle politiche del 2006






Domenica 16 Dicembre 2007
Libreria Icaro, via L. Romano, Lecce
h. 19,30

Simone Giorgino
Asilo di Mendicità (Besa editrice)

Presenta l'autore Antonio Errico

Conquistare uno spazio del genere – uno spazio per l’odore dei sedili dei treni locali, per il rumore sordo di uno sbotto di tosse, per il colore del muro sbrecciato e livido dell’ “Asilo di Mendicità” o di Santa Maria del pane – conquistare questo era tutto ciò che volevamo, e che chiedevamo a una poesia viva. Essere vivi anche noi: per gioco, per scherzo, per una volta, per provare.Questo, allora, abbiamo fatto.

SIMONE GIORGINO (1975) è uno dei tre autori di Venenum.

lunedì 10 dicembre 2007

Maurizio Leo. Del Gatto delle Fusa e del suo strusciamento (Lupo editore)












L’idea di una antologia avente come oggetto una selezione quanto più completa ed esauriente del percorso poetico di Maurizio Leo, mi solleticava da tempo, anche perché abbiamo dinanzi un autore davvero singolare, i cui versi sino adesso hanno procurato non pochi problemi a quanti hanno tentato una sistemazione analitica organica e puntuale. Maurizio Leo, che oggi vive e opera a Copertino in provincia di Lecce, nasce nel 1959, e da più di quindici anni porta avanti con encomiabile impegno una piccola casa editrice I Quaderni del Bardo, paragonabile per qualità editoriale alle pubblicazioni di Vanni Scheiwiller. Non possiede una distribuzione, né un catalogo, non ha un ufficio stampa, non ha un correttore di bozze, spesso la sua casa diviene un piccolo magazzino per i libri che lui realizza, costruisce, accudisce: eppure questa preziosa realtà che si muove nell’instabile e multiforme mondo dei libri (basterebbe leggere Il Controllo della parola di Andrè Schiffrin per i tipi di Bollati Boringhieri per farsene un’idea), nei suoi sedici titoli annovera nomi come Paolo Valesio (sino al 2004 resposabile del Dipartimento di Italianistica della Yale University, oggi nella prestigiosa Columbia University negli U.S.A.),un inedito di Vittore Fiore che ha impegnato e ha fatto ruotare attorno a questo volume, energie intellettuali come Massimo Melillo, Domenico Fazio, Rina Durante e ancora Maurizio Nocera e Elio Coriano. Sempre rigorosamente con le sue forze cura Il Bardo, una rivista a distribuzione gratuita (militante ad onor del vero), con un inserto dedicato alla poesia dal titolo “Allestimento” che ha ospitato un inedito del poeta cileno Arturo Morales, di chiara fama internazionale. Di lui hanno scritto pubblicamente Antonio Errico, Paolo Valesio, Mario Cazzato, Antonio Tarsi, Ennio Bonea. Privatamente, numerose le lettere di stima poetica di Francesco Saverio Dodaro. Maurizio Leo è stato tra i primi a ricevere una scheda critica e a essere ospitato con alcuni suoi inediti poetici sul sito web di letteratura e poesia diretto da Luciano Pagano, e di cui sono redattore www.musicaos.it. Grazie a questa operazione editoriale, posso permettermi la piccola presunzione di poter dichiarare di avere una conoscenza completa di Maurizio Leo e la sua opera. Leggendo L’Uac, il suo primo lavoro del 1981, già si intravede chiaramente da alcuni titoli quali saranno le coordinate poetiche che daranno poi vita alla sua identità (Pre-morte, Post-mortem, Luce e Morte, Diversità, Disperazione, Danza di Morte, Il Vino Maledetto, Per i Sobborghi, LSD, Nel Buio, Inutilità) . Un canto di disperazione quello di Leo nel suo L’Uac, che si perde in un abissale eterno ritorno. Scrive lucidamente Antonio Tarsi: “ (…) Allora poi cosa resta ai piedi del monte? Nulla forse nulla e ricominciare sia pure confusamente e surrealmente non sembra neppure più possibile da tre, ma da chissà dove…”. Un discorso poetico comunque ancora incerto, mai immaturo, però come di chi non ha trovato il modo di stare in punta di piedi sul baratro. Poi da Dogmaginazione, del 1992, comincia la svolta, chiamiamola formale, sperimentativa, lessicale di questo autore. Un libro che è volontà di bottino, di raccolta, in cui i versi sono incarnazione dodecafonica della meraviglia presente nell’Attendere, non importa cosa … fosse solo anche l’attesa della Fine, a costo di pagare un prezzo altissimo. Successivo all’Albergo di Latta del 1994, raccolta di transito immaginativo in un universo altro della poesia, vede la luce un vero e proprio capolavoro: Fobia. Per definirlo occorrerebbe parlare di un vero e proprio saggio per versi sull’Empietà, in cui si assiste ad una scrittura slegata da qualsiasi legame alla realtà, agli oggetti, ai volti, alle storie, perché il corpo poetico si incarna in un’Apocalisse il cui fuoco brucia, disintegra e scioglie qualsiasi cosa vi si trova dinanzi, lasciandovi solo cenere: sublimazione del nichilismo par excellence. Riportiamone un brano per chiarire le idee: “Ho masticato i capelli dell’universo, saziandomi fino a scoppiarne moralmente. Non mi hanno fatto schifo! Questo lo dovevo pur dire. Quanto di più schifoso esiste che noi non sfioriamo? I cadaveri sprofondati nei sensi dell’essere,nei domini dell’irreale, certo non provano un forte sgomento, tra i nefasti miasmi di un’impresa comune. FINORA MI SONO SOLO INGANNATO. Ho bestemmiato fuggendo, con una ferita alla testa ela rabbia del linguaggio mi affrettava il passo; sono caduto in una pozzanghera, l’acqua era sangue, sangue vergine, sangue d’innocenti; fredda è la brutalità del cacciatore, che nell’inverno bianco, insegue l’uccello ai piedi di un castagno. Volgare terra, un giorno sarai sballottata tra le mura dell’universo,e quel giorno VOI, vi romperete la testa, e saranno sventure e maledizioni le corruzioni delle vostre moralità”. Ma Maurizio Leo, nella sua carriera di poeta, sembra seguire il desiderio di sorprendere i suoi lettori e non solo. Nel 1998 c’è un vero e proprio cambio di point of view, nell’orizzonte del Nostro, tanto che ontologicamente ed esistenzialmente rivoluziona i codici, i versi diventano sincopati, spezzati, quasi a voler rendere violenza alla Poesia, ma alla maniera di un coitus infinitus, come fece gia Allen Ginsberg o William Burroughs nel suo Nova Express . Già perché dal 1998 la dimora che Maurizio Leo sceglie per farsi vivere poeticamente, è la stessa di Hemigway, Faulkner, Kerouac, Bukowski, un tratto della storia della poesia internazionale, raccontata magistralmente nel 2005 da Fernanda Pivano nel suo The Beat Goes On , per i tipi di Mondadori. “ la macchina si è rotta/ mi hanno rubato il fegato/questa salita infinita/ senza una strada/ tristezza che si scioglierà in un sorriso/ queste scogliere/ come una camera da letto/ho consumato fiammiferi e sigarette/ sui tetti scorre l’acqua dei critici/ musica posa le mani/ ehi! Charles mi devi 40 dollari” (non suona più il jukebox nell’appartamento di Allen, 1998). Esiste però una strana coincidenza, forse metastorica, fortemente astratta, tra una svolta di tal sorta, a questo punto anche timbrico-ritmica, proprio a cavallo tra il 1998 e il 1999: la nascita dell’Hip Hop, che guardacaso, viene fatta coincidere convenzionalmente con la pubblicazione nel 1999 del singolo Rapper’s Delight da parte del gruppo newyorkese Sugar Hill Gang. Una sintesi, forse ai più potrebbe sembrare azzardata, assolutamente riuscita tra la cultura beat e quella della nuova cultura (in quegli anni ovviamente) afro-americana. Il risultato sarà Il Bazar delle parole scomposte (2002). Per la cronaca, nel 2000, Maurizio Leo, pubblica, continuando instancabilmente la sua attività editoriale, alcuni suoi versi nell’antologia dal titolo Absentia , la prima antologia di militanza scritturale, che ha pubblicato gli interventi di quei poeti che in quello stesso anno, hanno dato luogo a performances nei pub salentini come L’Old Crown di Copertino, il Sirtaki di Porto Cesareo, gli Addams di Lecce. Ma ritornando al Bazar delle parole Scomposte non a caso Paolo Valesio scrive nella prefazione: “E’ interessante per esempio vedere come in questi testi i lacerti di una certa retorica modernistica del Mediterraneo (…) si inseriscano in una prosaicità contemporanea post-industriale (dentro una sola immensa periferia del mondo), e vengano poi smistati a uno sfondo nordico-gotico tutt’altro che mediterraneo (…) Analogamente è molto beat-vagabondante”. Ma facciamo parlare i versi : “ ci siamo fermati nei gabinetti/ di un autogrill/ ermetici/ ci porteranno sulle nubi dell’inquietudine/ chissà se per domenica arriveremo/ all’hotel plaza/ nello spazio del silenzio/ nell’assurdo che ci spinge ad avanzare/ poi un cartello: accendete le sirene”. Nel suo ultimo lavoro dal titolo Il cimitero di memoria, Maurizio Leo sembra mantenere il suo trend di ricerca sintagmatica lavorando su di un’espressività poetica lacerante del dubbio, dell’angoscia, del lutto, della separazione. Recupera toni iperastrattamente poetici ma di una polarità negativa, producendo versi come se fosse un novello Aleister Crowley che scrive sotto la dettatura del demone Aiwass il grimorio maledetto “The Book of Law”. Il paragone non è inappropriato perché qualcosa di infernale si cela nei versi di Maurizio Leo, che riesce a costruire architetture poetiche dall’umbratilità goticheggiante di un Blake nel celeberrimo “Matrimonio del cielo e dell’inferno”. Maurizio Leo fa sua l’esperienza beat, pulp, assorbendone la matrice codificata nell’ambito dell’espressività letteraria quando scrive la gioia non è scomparsa/ non è scuro il mattone/ grondante di sudore/ non può erigerlo/ ma sono vere le lacrime dell’indiano alto due metri/ che nell’estasi scompare ma la supera creando un suo percorso dove il corpo poetico si sbriciola in abissi dove i ricordi, la memoria divengono abominii che scarnificano, lacerano una demografia perversa che annuncia il viaggio: “ Ci ritrovammo, fermi, innanzi alle croci del piccolo cimitero di Memoria. Pietre e croci. Legno e fiori. Polverosi viali e poi qualche filo d’erba. Attendemmo l’arrivo per poi ripartire. Attendemmo, in questa minuscola parte di mondo, in questo lembo di terra di nessuno. Qui di Memoria “. Al di là di una possibile ragione decodificativa sulla produzione poetica di Leo, esiste la metà oscura di tutta questa faccenda. Ebbene se dovessimo spiegare il perchè di un poeta beat, o post-beat, in un territorio come il Salento, lontano dai miasmi dei sobborghi delle grandi metropoli americane, o comunque distante da quelle città italiane che hanno avuto l’opportunità di ospitare mostri sacri della beat - come Genova che nel maggio del 1979 in un teatro accolse un’azione performativa di Allen Ginsberg e Peter Orlovsky - azzereremmo qualsivoglia possibilità di rendere un autore come questo degno di entrare a far parte di antologie di rilievo nazionale. Ma a questo punto risulterebbe addrittura normale chiedersi che senso hanno avuto una Claudia Ruggeri o un Salvatore Toma, e perchè no anche un Antonio Verri. Già…perché la qualità c’è e come! Un aspetto questo che si può capire subito, leggendolo, e trascurando il fatto che sia un poeta che viva a Copertino, in provincia di Lecce, patria del Santo dei voli, Giuseppe Desa . In ogni verso di Maurizio Leo c’è una sofferenza incredibile, forse inenarrabile, che non nasce dall’essere un mestierante dei versi, chè quelli si limitano a voler verificare se la parola scelta calzi a pennello in questa o quella determinata strofa, se il ritmo acciuffi o meno per i capelli il lettore, se occorrano o meno giochi di prestidigitazione pur di trovare la chiave di volta che attraverso la discesa dello spirito della Sperimentazione, lo cinga di alloro … La forza dei versi in Leo, è da ricercare nella disperazione del riflusso infinito dei giorni che passano, senza concedere sconti, perché è la vita stessa che non ne concede, e non concede tempo, né spazi, né pause dove poter scrivere liberamente qualche verso (quasi dissanguandosi), perché la lotta per la sopravvivenza è da giocarsi sulla mediocrità dilagante che ti circonda, quella fatta di tempi bui, di volti che ti attraversano senza regalarti nemmeno un sorriso, di persone che dove si posano cambiano colore, o dei burocrati della cultura, sempre pronti mai sazi di confezionare pacchi dono, luccicanti, sfavillanti di banalità. Non siamo di fronte né ad una poesia di lotta politica, né d’impegno civile. E’ una poesia di resistenza, quella di Maurizio Leo, che crea attorno al suo corpo una seconda pelle, indispensabile per evitare bruciature, soprattutto quando si sente di non appartenere ad un contesto particolare, che si vorrebbe vivere altrove, e respirare un'altra aria, a sognare, atroce sognare, regressus ad infinitum verso l’oblio del senso … insomma essere da tutt’altra parte. Certo fumare le Pall Mall, le stesse sigarette del maledetto James Dean, mantenere rapporti con l’America, mandando i suoi libri alla Yale, scrivendo alla mitica City Lights… pura coreografia? No! E’ sentirsi di un altro mondo e di un altro modo: “ scesi nella parte sud/ dell’aeroporto/ tutto brillava nella pozzanghera/ pensai/ è un mondo di macchina/ mi fermerò a comprare/ una cravatta/ invece del solito drink/ sbirciai attraverso il vetro/ vidi/ ciancianti befane/ dispensare anemiche cibarie/ in piatti di metallo/ a ciascun sacrificio/ c’è un ragazzo purificato/ non è un gorilla/ è solo/ desolation blues”. Ora, l’intera operazione di antologizzare Maurizio Leo, potrebbe anche starci … ma entro un certo limite. Perché i suoi versi mi hanno fatto pensare ad una vera propria history of violence, mi hanno portato alla mente le immagini del film Easy Rider o Marlboro Man, insomma di tutto uno spazio da grande schermo, da Twenty Century Fox, da Hollywood per farla breve. Non stiamo alla larga da questi versi, ma assumiamoci il rischio di affrontare questo poeta a pugni e denti stretti, di prendere anche dei colpi piuttosto duri, sui nostri bei visini, abituati alla poesia da giardino … mentre c’è ancora tanta Bud Weiser da buttare giù!

da www.musicaos.it
fonte iconografica da www.ilmessaggero.it

martedì 4 dicembre 2007

La Besa editrice a Roma a Più Libri Più Liberi 2007










Palazzo dei Congressi Eur - Roma

Giovedì 6 dicembre

dalle 18 alle 19

sala turchese

Tabula Rasa 06 (Besa editrice)

Rivista di letteratura invisibile

autunno/inverno 2007

La rivista letteraria tutt’altro che invisibile!

Tabula Rasa è la rivista che la Besa Editrice dedica dal 2002 alla scrittura di ricerca narrativa e poetica. Prosegue la collaborazione con il gruppo de iQuindici, la sezione dedicata alla narrativa accoglie una selezione dei racconti già comparsi sulla loro rivista Inciquid, in particolare gli autori ospitati sono Gabriele Gismondi, Sandra Risucci e Paolo Ferrari. La sezione dedicata alla narrativa si completa dei racconti inediti di Gabriele Dadati, Gianluca Gigliozzi e Michele Lupo, oltre che dall'esordio di Marco Montanaro, dal titolo "Gli ultimi giorni di martirio del Signor B.". Nella sezione dedicata alla critica è ospitato un interessante intervento di Christian Sinicco, dal titolo "La nuova poesia in Italia? ouverture sulla differenziazione", nel quale vengono esaminati gli autori della recente poesia italiana; insieme a questo gli interventi di Luciano Pagano, Elisabetta Liguori e Grenar, che con Giuseppe D'Emilio descrivono dall'interno l'esperienza di VibrisseLibri. Nella sezione poesia sono ospitati quattro autori, Fabio Franzin, con il poema inedito intitolato “Sull'orlo della strada”. Luigi Nacci, con una selezione di poesie scritte tra il 2004 e il 2007, Claudio Pagelli e, per la prima volta in rivista, Luigi Massari. Le illustrazioni di questo numero sono di Orodè.

Relatori: 
Andrea Di Consoli, Luciano Pagano, Elena Cantarone, Michele Lupo, Stefano Donno
 
 
 

Palazzo dei Congressi Eur – Roma

Sabato 8 dicembre

dalle 19 alle 20

sala ametista

Melissi 14/15 – Cultura, tradizione e folklore: un patrimonio da difendere, una rivista da conoscere (Besa editrice)

Relatori: Vincenzo Santoro, Roberta Tucci, Luciano Del Sette


Questo numero di Melissi, come sempre attento e sensibile ai vari aspetti delle culture umane, scava in profondità sul territorio e contemporaneamente si proietta in un percorso che, partendo dalle sponde opposte dell’Albania, raggiunge l’India passando per il Medio Oriente. Il tema sotto i riflettori è quello della patrimonializzazione della cultura popolare, attualissimo e di grande interesse sia per la ricerca che per la salvaguardia. Il soggetto sollecita, infatti, riflessioni altrettanto complesse e cogenti attorno a concetti quali cultura, popolare, folklore, locale, e al ruolo degli enti pubblici e politici nella determinazione di tali definizioni e nella selezione dei beni che meritino sostegno o salvaguardia. Entrando nel vivo della questione, vengono proposti alcuni documenti prodotti dalla commissione istituita dal ministro per i Beni e le Attività Culturali Rutelli- e presieduta da Paolo Apolito - con l’obiettivo di identificare delle linee guida per l’individuazione di alcuni eventi da valorizzare attraverso un sostanzioso sostegno economico ed eguale esposizione mediatica. In relazione a questi processi di selezione trova posto il saggio di Berardino Palumbo che smaschera e chiarisce i criteri e le procedure che regolano l’inclusione ed il mantenimento dei beni nel patrimonio protetto dall’Unesco. Completano il quadro i contributi che ruotano attorno alla definizione dei beni demoetnoantropologici, di cui se ne fornisce quella istituzionale più recente , e la costituzione di ecomusei. A queste di carattere generale si aggiungono osservazioni più specifiche sulle dinamiche del kithsh e dello shopping, sul rapporto fra cibo e identità, trattato in stile francese da Salvatore Bevilacqua e ancora sull’uso del corpo nelle feste religiose e sul teatro popolare di ricerca. Un posto a sé hanno le riflessioni trasversali di Gabriele Mina su ‘I beni culturali e la scimmia’. La musica ha il suo spazio con i Ghetonia, noto gruppo di musica popolare, e la loro ricerca in equilibrio fra tradizione e creatività, e con il tambur, il liuto che con il suo ritmo guida le riunioni mistiche degli Yaresan, curdi iraniani seguaci di un culto che ha le sue radici nello Zoroastrismo. A questo contributo scritto da Siamak Guran, egli stesso Yaresan, si affianca quello altrettanto interessante sul sufismo e la trance ad opera di Guglielmo Zappatore. Se l’Albania cui ci introduce Donato Martucci e da cui si parte è quella delle comunità montanare basate su un codice d’onore maschile, l’India che fa da capolinea è quella delle danze rituali e dei culti al femminile presentati da Luisa Spagna.


 

Special tank to Salento Web










Un mio personalissimo ringraziamento, anche se con discreto ritardo, va a Gioia Perrone e Francesca Angelozzi, di Salento Web Tv che hanno seguito con grande professionalità e disponibilità i più interessanti appuntamenti della Città del Libro di Campi, tra cui anche quelli di Besa ovviamente. Vi assicuro che è un piacere lavorare con loro!

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