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sabato 26 luglio 2008

Su Molokh di Angelo Petrelli edito da PeQuod


















Molokh! Un nome che evoca l’Abominio,una creatura che tutto assorbe e divora,un organismo che indistintamente gioca con la Luce e l’Ombra, con il Destino, che pone, compone e smembra universi con un istinto cieco e idiota. Molokh è anche questo nell’ultimo lavoro di Angelo Petrelli edito da Pequod con due interventi critici di Massimo Sannelli e Marco Caloro. Già perché per questo poeta la Poesia, il mondo delle Muse, non è ritmo e tecnica, non è solo quello, anzi il poiein di matrice classica si sublima in un regressus ad infinitum non tanto da superficiale postura o posa come la si voglia definire, da maledetto della porta accanto. Anzi pare esserci un gusto blasfemo nell’allestire semanticamente un viaggio agli inferi, giusto per godere della dannazione altrui! Già, perché in Angelo Petrelli, nel suo modo di fare versi, c’è qualcosa del dogma, dell’assoluto giudice che nell’assolutezza dell’a-priori sa già chi condannare, quale pene infliggere, la dose di tortura da somministrare al reo di scarsa purezza,lo studio del corpo e della sua resistenza al dolore, lo studio dello sguardo e di quanto può reggere al peso della vergogna. Una vergogna nata per presunta inadeguatezza alla vita, all’amore, alla Poesia. Questo è, se dovessimo utilizzare della psicologia spicciola, la grandezza dell’Inquisizione. Tutto il programma teorico-poetico in Molokh, viene dichiarato senza troppi tentennamenti nel primo verso di ciascuno dei nove movimenti in cui è suddivisa l’opera: “- sei ipotesi di un male maggiore”; “e poi ritorneremo nel tuo cine/congiunti a metà (…); “ è il mio linguaggio certo, lo ammetto: ma non-me, così empio (…); “vedi la tua figura sfuocata come il nero (…)”; “il mondo // non affamato di cose sottili (…); “ora che le mie mani sono con le tue, sopra le braccia appese al collo (…)”; “vedi // ha un suo firmamento il cielo” (…); “- è questo che capisco: che l’immenso non esiste(…); “ e certe volte scappa la bava (…)”. Incipit che rappresentano delle vere e proprie chiave di volta per accedere all’esoterico di questi versi. Lavoro complesso, che denota padronanza di sentire e tenuta di stile, e capacità di riflettere teoreticamente sulla scrittura poetica. Per Angelo Petrelli, la sua scrittura deve rappresentare il modo par excellence di nascondere ogni sistema, ogni regola, perché scomparirebbero tra le fauci del Molokh; non si arroga il diritto di dispiegare come un fazzoletto l’universo stesso, solo mostra il putridume incrostato tra le pieghe della vita. Una sorta di viaggio iniziatico alle porte del regno di Lucifero solo per dire e dimostrare a stesso che l’unica salvezza per l’uomo è nella rassegnazione: si può solo fallire! In Angelo Petrelli, risiede il gusto per l’eccesso, la ricercatezza nella posizione del ritmo e del respiro nei suoi versi, e un’ombra, una sorta di melancolìa che ricorda l’Inferno Minore di Claudia Ruggeri. Per dirla con Cioran: "Tutti parlano di teorie, di dottrine, di religioni, insomma di astrazioni; nessuno di qualcosa di vivo, di vissuto di diretto. La filosofia e il resto sono attività derivate, astratte nel peggior senso della parola. Qui tutto è esangue. Il tempo si converte in temporalità, ecc. Un ammasso di sottoprodotti. D’altro canto gli uomini non cercano più il senso della vita partendo dalle loro esperienze, ma muovendo dai dati della storia o di qualche religione. Se in me non c’è niente che mi spinga a parlare del dolore o del nulla, perché perdere tempo a studiare il buddhismo? Bisogna cercare tutto in se stessi, e se non si trova ciò che si cerca, ebbene, si deve lasciar perdere. Quello che mi interessa è la mia vita. Per quanti libri sfogli, non trovo niente di diretto, di assoluto, di insostituibile. Dappertutto è il solito vaniloquio filosofico." (Da Quaderni 1957-1972, di Cioran)

1 commento:

  1. ciao stefano, hai visto il video?
    http://www.youtube.com/watch?v=Hx2WkoMMb3Q
    ci sei anche tu!

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