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venerdì 11 dicembre 2009

Elisabetta Liguori scrive dell'ultimo libro di Luisa Ruggio "Senza Storie" edito da Besa

“La sua generazione sopravvalutava la modestia.” In questo assunto si condensa il senso della scrittura di Luisa Ruggio, soprattutto quella della sua ultima raccolta di racconti. Una scrittura che finalmente non pecca di modestia, ma, consapevole di se stessa, forza il limite. Una scrittura che si libera e liberandosi osa. Osa nel colore, nel timbro, negli scenari, nella struttura. Nella fisicità. Soprattutto in queste “Senza storie” edite da Besa editore. E, va detto, le ragioni di questo sforzo fisico (perché dietro ogni vera scrittura c’è sforzo, disciplina, fatica, anche dietro quella che appare la più naturale) possono essere rintracciate lungo gli stessi racconti che compongono la raccolta della Ruggio, come fossero le briciole di Pollicino. Ancora una volta c’è molta fisicità nei racconti della Ruggio. Cibo, mani, risate e denti, foglie e alberi, lacrime a cascata, odori e nasi. E molto fatica.
“La mela si fermò tra i miei piedi”, infatti scrive l’autrice, raccontando di una maestrina arrivata a sconvolgere la città con le sue lezioni lievi. La mela del desiderio rotola dalle mani della maestra a quelle della ragazzina che l’ascolta. L’allieva viene così scelta da un diverso sentire, dalla gioia di un vivere straniero, da colori nuovi, e da quella scelta scaturisce ogni altra narrazione.
In una sorta di passaggio di consegne, da donna a donna, da immaginazione a immaginazione. Non mi piace parlare di fantasia quando si tratta di scrittura. Perché la fantasia può essere bestia strana, che divora la ragione, opera involontaria, a volte solo per assonanza (dal cielo porta al mare, e dal mare ai pesci). Mi pare più adatto parlare invece dell’ Immaginazione di chi scrive, comprendendo in questo lemma una più generale, strutturata e volontaria, visione del mondo. Perché una vera narrazione, anche se si sofferma su un dettaglio, deve essere in grado di fornire una visione completa del contesto in cui quel dettaglio brilla. A conferma, Luisa Ruggio sembra accettare una nuova eredità letteraria con questi suoi ultimi racconti brevi, una rinnovata visione delle cose tutte, che accoglie il reale quanto l’irreale che ne è figlio. Le biografie delle donne sono spesso ricchissime di questo tipo di lasciti, di queste immaginazioni acquisite. Da madre a figlia, da amica ad amica, nel tempo, dopo il tempo, per conservazione, per prosecuzione, per fertilità. Scrive infatti la Ruggio a questo proposito che “ le biografie delle donne sono più interessanti perché mancano di senso comune (non di buon senso)”. Sono destinate quindi a sorprendere, oltre che a creare connessioni ereditarie, così come sorprendono le trame scelte dall’autrice, le quali, pur arrivando da lontano, raccontano mondi fantastici e modernissimi, di uomini simili a pianoforti, di bar che scrivono lettere, di allunaggi notturni tra i campi arati e dialetti meticci. È come se la Ruggio trovasse oggi tutto il coraggio necessario per attingere a piene mani alla proprio biografia fantasy, ai colori delle proprie origini. Attinge e mescola. In questo scandaglio non teme di trovarsi ad evocare quasi naturalmente il fantasma di Andersen accanto a quello di Federico Fellini. Vivere o cessare di vivere sono solo soluzioni immaginarie: scriveva Breton nel 1924. L’immaginario senza vincoli che in molti possediamo anche senza saperlo. È lo stesso di Luisa. Con lei l’Altrove dell’arte surrealista diventa carne, grazie ad una tecnica narrativa raffinatissima che lavora sul lessico come sulle linee e le sfumature cromatiche di un vestito di organza. In questa forza immaginativa resta di concreto però quello che l’autrice chiama l’utero del dubbio. Un dubbio necessario. Un dubbio vero, solido. Dubbio femminile ma non solo. Tra i colori della sua lingua e dei suoi personaggi, infatti, si possono rintracciare vitali, ricorrenti, punti di domanda, che gli esergo posti dall’autrice all’inizio di ogni racconto, rivelano.
Una sorta di preliminare ammissione di umana e tenerissima fragilità.

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