
domenica 31 gennaio 2010
Il libro del giorno: Piergiorgio Odifreddi, Hai vinto Galileo (Mondadori)

Millôr Fernandes, 100 Fábulas Fabulosas (Editora Record). Di Adriana Maria Leaci

A sua trajetória de trabalhos passa do jornalismo à literatura com muita naturalidade. O conteúdo dos seus escritos, sempre acompanhados por alguma charge, evidencia uma característica lúdica instintiva, que não se perdeu com os anos. E’ o seu espírito excencial e o que ainda lhe dá inspiração. Não importa qual o formato, qual envólucro Millôr invente para codificar a sua criatividade. O resultado será sempre muito intrigante, como ele mesmo se define. Como o mundo inteiro o conhece.
100 Fábulas Fabulosas, Millôr Fernandes – Editora Record
Literatura Brasileira – Contos e crônicas
sabato 30 gennaio 2010
Il libro del giorno: Olga Campofreda, La confraternita di Elvis (ARPANet)

Tutto questo silenzio di Elisabetta Liguori e Rossano Astremo (Besa) visto da Luisa Ruggio

Ci sono riusciti miscelando le imbastiture necessarie all’organizzazione interna di un romanzo scritto da due penne profondamente diverse. Una diversità che si può rintracciare smistando le voci di tutte le letterature e la musica precedenti a questa stesura del turbamento e della sua crudele dissimulazione. La non omogeneità è il punto di forza di questa scrittura doppia, androgina e che rivela moltissimo del maschile di Elisabetta e del femminile di Rossano.
Così, partendo da ciò che i protagonisti di questa storia d’amore sono diventati durante l’attraversamento cieco della corruzione del tempo, la strana coppia Liguori-Astremo, racconta l’assurdità esistenziale - penosa, delirante - e l’unica solidarietà possibile: riconoscerci in quanto esseri umani, all’improvviso - tarda epifania del rovescio - in tutto ciò che uccidiamo.
“Ognuno uccide la cosa che ama” scrisse Wilde nel confino del carcere, dov’era finito con l’accusa di pederastia - l’amore per Bosie, Alfred Douglas, l’uomo che lo portò alla rovina - ovvero l’aver violato le regole della sua classe sociale. La dissertazione è d’obbligo se si pensa che la password di questo romanzo etico è tutta nella citazione dell’inizio, firmata Albert Camus, sfilata via, spina di pesce, da “Lo straniero“: “In quel momento ho pensato che si poteva sparare oppure non sparare e che una cosa valeva l’altra“.
Il vero crimine, così come l’unico peccato possibile, è il difetto di sentimento.
Il backstage del romanzo è interessante almeno quanto il suo esito. E’ stato Astremo a proporre il soggetto a Liguori, da qui in poi il lavoro è sbocciato avvalendosi di un certo parallelismo condito da lunghe telefonate serali tra i due autori pugliesi che sono anche un frutto dell’utopia della scrittura ai tempi di Internet avendo dimostrato come dialogano, talvolta, le solitudini. Quelle degli scrittori specialmente. Torna il tema caro alla Liguori (che si è fatta amare con la maturità dei due romanzi “Il credito dell’imbianchino“, Argo, finalista al Carver 2005 e “Il correttore“, PeQuod), la violenza invisibile, che nuota nelle case, in quell’acquario chiamato famiglia, dove, come si legge a pagina 150: “La televisione riempie di sabbia le ore“. Oppure, ancora più forte, a pagina 138: “Tutto è acquatico, pure il rumore della tele sempre accesa nel languore domestico“. Viene in mente una versione terrestre, miserabile, di “Blade Runner“. Dopo “Corpo poetico irrisolto” (Besa) e “L’incanto delle macerie” (Icaro) Astremo, che macina da anni scrittura in rete e sui giornali, presta la sua poetica a un romanzo scritto per fotogrammi, per immagini, fratturando un po’ di generi e facendoci captare, di tanto in tanto, la musica che arriva dall’altra stanza.
Ciò che ne deriva non è solo un’analisi socio-psicologica precisa come un bisturi, netta. E’ letteratura di livello, entra negli spazi scomodi, vede quello che è complicato anche solo guardare. Questo libro riconcilia il talento con la militanza, è un sonar nel mare di carta dell’Italietta grafomane che piega l’ispirazione alle ricette del mercato editoriale. Liguori e Astremo dicono più di qualcosa, con la massima sincerità possibile, mettono il lettore in contatto con l’evidenza a tal punto ignorata da sembrare iperreale e surreale. E quella sincerità trasforma il lettore, lo scuote, lo mette in crisi. E’ molto, ed è ciò che si crede di meritare dopo l’acquisto di un libro. La ricerca dei protagonisti di questo romanzo, è nello sforzo immane di continuare a vivere nonostante “Tutto questo silenzio“, affidando quello che lo stesso Camus riteneva essere l’unico vero problema filosofico a un linguaggio credibile e sontuoso al contempo, pieno della forza comunicativa della più fragile adolescenza accanto all’autismo involontariamente lirico degli adulti.
Una famiglia apparentemente normale, di plastica (come annunciano i quattro pupazzi inquietanti della copertina) le due giovani figlie di una coppia che ha smesso di impegnarsi per far esistere il futuro. Il circuito minimo che ruota intorno a questo buco nero. E la violenza rapsodica che squarcia la routine cianotica dei Bordini, eroi del disgusto, anestetizzati da un dolore troppo grave che li vota al fallimento.
E qui, proprio nei destini dei perdenti, si tocca la mano solidale dei due scrittori che mettono la parola al servizio della vergogna della verità, consentendo il beneficio di una confessione a personaggi che altrimenti non riuscirebbero a trovare il canale di scolo della parola per essere ancora umani, continuerebbero a guardare da un’altra parte credendo di collezionare una pazienza che calcifica in chi si condanna a sopportarla. Perché non è vero che non è mai troppo tardi. Alcuni libri stanno alla letteratura come l’esclamazione disarmante del bambino di Andersen alla folla della fiaba danese che occultava l’ovvietà: “Il re è nudo!“.
venerdì 29 gennaio 2010
Annalisa Fantini, L'innocenza indecente (Il Filo) vista da Maddalena Mongiò

Lo scrittore è un atleta solitario e singolare, un atleta che sottopone i suoi pensieri, la sua mente, a un duro allenamento. Lo scrittore è un atleta solitario e singolare, un atleta che forma la sua squadra con una scia di parole, con i tratteggi dei suoi personaggi, con i retaggi delle sue letture. Annalisa Fantini, giornalista romagnola trapiantata a Lecce, ha deciso di percorrere l’esaltante esperienza della staffetta letteraria in uno scambio virtuale che passa di racconto in racconto. “L’innocenza indecente” edizioni Il Filo, si dipana in sedici racconti: mete in cui si celebra la crudezza dell’innocenza, il femminile, l’abisso del dolore.”Ci sono donne che non conoscerò mai. Tante, invece, mi sono passate accanto, altre hanno fatto in modo, nascendo, che anche io potessi sperimentare l’avventura della vita. Ho taccuini pieni di nomi, di appunti, di date, di piccoli e grandi fatti che hanno cambiato il corso della loro esistenza e hanno plasmato il mio modo di pensare. Di loro conservo ricordi che a volte sono appena sbiaditi dal tempo, spesso vividi e ancora emozionanti per la grande forza che mi hanno trasmesso. Nel mio lavoro di giornalista ho dovuto raccontare episodi per lo più tristi, perché le protagoniste della cronaca sono in gran parte vittime di violenza anche estrema. Ho scritto di donne che hanno percorso migliaia di chilometri in cerca di salvezza, attraverso viaggi insostenibili. Ho conosciuto ragazze terribili che hanno saputo uccidere, depredare, mentire, vittime della loro stessa spavalderia e altre che hanno salvato il loro piccolo mondo. Sono donne nate più di cento anni fa, sono bambine che non hanno raggiunto l’età scolare. Vengono dall’Italia, dalla Bosnia, dal Kossovo, dall’Iraq, dalla Germania, dall’Albania, dalla Polonia.” Così, appassionatamente, Annalisi Fantini introduce la sua avventura narrativa, il testimone che corre tra storia e storia e qui si compie il miracolo o il mistero del linguaggio del cuore.
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giovedì 28 gennaio 2010
Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo, di Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero (Chiarelettere)

Giorgio Perlasca, 1992
Giorgio Perlasca, lo Schindler italiano per troppo tempo dimenticato da tutti: dai fascisti (era contrario alle leggi razziali e non aveva aderito a Salò), dai democristiani (senza risposta una sua lettera a De Gasperi), dai comunisti (era di destra). E dalla Chiesa. Un uomo libero che mai rinnegò la sua storia, come racconta lui stesso in questa testimonianza inedita. Fingendosi diplomatico spagnolo, riuscì a salvare migliaia di ebrei del ghetto di Budapest. Un’avventura memorabile tutta da raccontare.
Giorgio Perlasca (31 gennaio 1910 - 15 agosto 1992) combatte prima in Etiopia e poi come volontario in Spagna con i falangisti di Franco. Per lavoro viaggia nell’Europa in guerra. A Zagabria e a Belgrado assiste ai primi massacri fatti dai nazisti. A Budapest si adopera con ogni mezzo in favore degli ebrei. Tornato in Italia, fa i mestieri più diversi (“Tutto tranne il ladro”). Ungheria, Israele, Spagna lo premiano per la sua attività, Washington lo festeggia. Finalmente, nel 1990, la tv pubblica italiana racconta la sua storia. Arrivano i primi riconoscimenti ufficiali. Ma è tardi. Muore con il rammarico di non aver ricevuto dallo Stato ciò che gli spettava. Nel 2002 la Rai manda in onda il film di Alberto Negrin: "Perlasca. Un eroe italiano", con Luca Zingaretti.
Dalbert Hallenstein, giornalista investigativo australiano, ha lavorato nel Sud-Est asiatico e in Europa, soprattutto in Italia. Ha scritto per The Melbourne Age, The Sunday Times di Londra, The European e The International Herald Tribune. È autore di diversi saggi, fra i quali "The Super Poison" con Tom Margerison e Marjorie Wallace (Macmillan, 1979) e "Doing Business in Italy" (BBC Books, 1990). Ha collaborato con Ferruccio Pinotti e Udo Gümpel al libro "Berlusconi Zampano. Die Karriere eines genialen Trickspielers" (Riemann Verlag, 2006). Attualmente abita in una sperduta contrada delle colline veronesi dove coltiva olivi e suona il flauto.
Carlotta Zavattiero, giornalista e scrittrice padovana, ha lavorato per diverse testate locali come Il Corriere di Verona, L’Arena, Il Verona e come corrispondente per Radio24. Ha pubblicato "Alessandro il Macedone. Il pensiero e il cuore di Alessandro Magno" (Bonaccorso, 2005) e ha collaborato con Ferruccio Pinotti al libro "Olocausto bianco" (Bur, 2008). Vive a Verona, dove insegna italiano, greco e latino. Appassionata di lingue straniere, collabora con l’agenzia Piccolo Moresco di Madrid. Al momento sta pianificando un trasferimento
definitivo a Parigi.
Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo, di Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero
Collana Reverse, Pagine 220, Euro 14
...a pagina 199“Il mio è stato un atto umanitario che
non c’entrava niente con la politica.”
...a pagina 166-167
“Non ci sono parole per lodare la tenerezza
con cui ci avete sfamato e vi siete preso cura dei vecchi e degli ammalati. Che Dio onnipotente possa ricompensarvi.”
Biglietto consegnato a Giorgio Perlasca dagli inquilini di una casa protetta di Budapest, maggio 1945.
Krill 01 - consumo e verità (Lupo editore)

Brutta bestia il consumo, verrebbe da dire in tempi come questi. È chiaro che siamo sotto assedio, che è un sistema di controllo molto efficace ed estremamente pervasivo. Ed è un sistema che funziona, soprattutto. Funziona perché aggrega, perché ogni minuto conquista nuove terre e avanza con una potenza mirabile. È sotto gli occhi di tutti la spinta, e soprattutto la sentiamo tutti, la spinta. È anche vero che ogni minuto si liberano terre dal giogo del consumo, si organizzano comunità, si creano codici nuovi, si producono forme di resistenza. È vero, ma il conto è impari. Ci sono interi continenti che sono lì sulla soglia, milioni di persone pronte a lanciarsi verso i pochi varchi a disposizione e disposte e schiacciare e a farsi schiacciare pur di strappare il biglietto d’ingresso al nuovo miracolo globale. Il capitalismo sembra avere un appeal irresistibile, così come lo stile di vita e di consumi elaborato dalla cosiddetta società occidentale.
Un sintomo di questo, un simbolo tra tanti, le parabole sui balconi e sulle terrazze del centro, ma anche della periferia del pianeta. Anzi soprattutto delle periferie, a ben guardare. In fin dei conti, le parabole, protese in uguale direzione come ad ammirare un idolo invisibile, ci ricordano il flusso di rappresentazioni, visioni e messaggi che costituiscono un continuum etico ed immaginifico onnipresente. Esso ci “possiede”, non già quali semplici fruitori, ma ancor più quali membri attivi. Siamo calati in una forma di vita, quella del consumo, a cui contribuiamo ogni volta che sintonizziamo i monitor con le frequenze TV, oppure quando entriamo come gatti affamati nei nostri supermercati, o ci aggiriamo sornioni tra gli scaffali del media-store alla ricerca dell’ultimo modello di... Il consumo è una forma di vita anche e soprattutto perché siamo disposti (coscientemente o no) ad accettare l’inganno ideologico che si cela nelle merci che compriamo, l’idea di mondo che è sottesa alla réclame pubblicitaria. Quindi il consumo è innanzitutto una brutta bestia imperante e in salute. Ed è una bestia che si attacca a qualcosa che è radicato dentro di noi, che in qualche modo, ospita la bestia, le offre un riparo e la coccola anche. Perché consumare soddisfa desideri primordiali, aggrappati all’uomo fin dalla sua nascita. Colma vuoti, illumina anfratti bui, riscalda certe solitudini, soprattutto metropolitane, ma non solo. In questo numero abbiamo deciso di cercare una relazione tra il consumo e la verità, di provare a leggerne le implicazioni. In questo senso il consumo è un sistema di produzione della verità. È un modo potente di legare il soggetto a se stesso, di realizzare una vita. È per questo che funziona bene, perché promette orizzonti di gloria. Il rapporto tra consumo e verità si gioca dunque su un doppio binario: se il consumo della verità rimane il consumo di un oggetto che viene venduto e prodotto in quanto merce, allora la verità sarà sempre qualcosa di esterno rispetto al soggetto che se ne appropria e la “consuma”. Se invece la verità da oggetto-merce da consumare diventa prassi che muove la volontà di coloro che ne fanno esercizio, allora la verità può rompere il dispositivo legato al consumo che ci governa e a cui siamo consegnati nelle nostre attività quotidiane. L'esercizio etico della verità diviene il rovescio della medaglia, quel meccanismo che introduce un elemento di novità, scardinando lo stato di cose attuale in cui il consumo fa muovere il tutto, secondo le sue logiche, i suoi meccanismi e le sue merci. Per attuare una prassi che sia diversa è necessario dare voce a narrazioni che siano fuori da un dispositivo ormai consolidato: questo è l'obiettivo che ci proponiamo di portare avanti, con tutte le difficoltà che lo abitano. Krill vorrebbe essere un magma, un blob in cui i discorsi si intrecciano e dove un pugile della periferia di Napoli è parresiasta quanto un dissidente israeliano.
I contributi presenti in questo numero sono accomunati nella differenza dei linguaggi, dei registri narrativi, dei codici comunicativi da un unico filo rosso: interrogare l’attuale. Attuale come “l’adesso del nostro divenire” (Deleuze-Guattari). Le pagine che seguono rappresentano, dunque, il frutto di questi quattro mesi passati a masticare (a giocare con) i concetti di consumo e verità. I testi offrono una eco, a volte corposa e a volte molto flebile, di queste due parole. Come al solito non si trattava di saturare un tema, ma di lasciare il quesito irrisolto, provando semmai a suggerire dei percorsi possibili di svolgimento. Alcuni pezzi riflettono il tentativo, da cui eravamo partiti, di mettere in luce gli aspetti più curiosi o più grotteschi dello stile di vita che si suole definire “occidentale”, come il microcosmo della moda, o la retorica di certo etno-turismo, oppure i meccanismi perversi del marketing etc. In altri contributi viene fuori la questione della verità e del pronunciarla, quando questo può voler dire misurarsi con le menzogne di coloro che hanno in pugno un popolo, una città (poco importa se la città si chiama Gerusalemme o Taranto). Le narrazioni giocano con i paradossi legati al consumo, con le nostre ossessioni quotidiane, con le verità che ci aspettano sullo scaffale, che mettiamo in un carrello e che paghiamo alla cassa. Un discorso semi-serio percorre in modo invisibile una buona parte di questo Krill 01. È quello della sessualità, fattore vitale che ci portiamo sottopelle, e che riaffiora in modi scomposti nelle parole ipocrite sul pudore o nei gossip politici. In fin dei conti l’eros è questione capace, come poche, di mostrarci i tanti idola che si celano nei nostri discorsi e che fanno di noi “consumatori di verità”.
Hanno scritto per questo numero di Krill, tra gli altri: Louise Wallenberg, Federico Mello, Francesca Massai, Benedetta Barzini, Giso Amendola, Diego Cugia, Giuliano Foschini, Paola Aloisio, Elisabeth Bernstein.
Tra le prime date di presentazione della rivista, segnaliamo il 29 Gennaio a Matera presso la Libreria dell'Arco, il 5 Febbraio a Bologna presso la libreria Modo Infoshop e il 6 Febbraio a Ferrara presso la casa editrice la Carmelina.
La rivista (costo 10 euro) può essere acquistata presso le Manifatture Knos di Lecce, in libreria, su www.ibs.it e www.lupoeditore.it.
Info: 347.4021832, krillproject@libero.it
mercoledì 27 gennaio 2010
A single man di Tom Ford visto da Massimiliano Manieri

Io stasera sono entrato in un cinema… E non credo d’aver visto esattamente ciò che con comodità usiamo definire film… perché aveva un’energia al suo interno differente, in toto… Dallo schermo mi arrivavano un flusso di immagini, colori, suoni, sguardi, parole, silenzi che io, in tanti anni di fedele e felice capitolazione alla 7° arte, ora non saprei trovare facilmente similitudini e termini di paragoni per dirvi qui, ora, a cosa somigli questo caleidoscopio qui descritto. Il film racconta l’elaborazione di un lutto, all’interno di una coppia, e la storia potremmo anche chiuderla qui, ma il punto è nella delicatezza con cui questa viene tracciata, nell’equilibrio chirurgico di colore usato dal regista per trascrivere anche “cromaticamente” lo stato d’animo del protagonista. Ed io mi son bloccato dietro decine di inquadrature filmicamente perfette… Nel rallenty usato come cesello nei momenti di maggiore pathos… Nei silenzi che il regista direziona come pugnalate rumorosissime dritte al petto di chiunque abbia avuto un fremito per una persona amata, cercata, e poi svanita appena ci voltavamo….Vi sono momenti di assurda ilarità scavati all’interno di ritagli tragici che qui non racconto per non anticiparvi una singola briciola di questa sinfonia per occhi e cuore. E questo piccolo trafiletto nel quale mi pregio di indicarvi un qualcosa che mi ha emozionato non intende essere un consiglio nell’indirizzarvi verso questa pellicola. Perché occorre un cuore pronto e colmo, per vedere questo film…
Un’anima sporcata dalla vita fino nel profondo….Un respiro possente, ma silenzioso, capace di auto-ascoltare ogni singolo scricchiolio circostante…
A costoro, e solo a costoro, io dico: FORSE DOVRESTE VEDERLO
Il Film - E' il 1962 e la guerra nucleare sembra imminente. La paura pervade il mondo. I valori sociali sono rappresentati in termini eccessivamente semplicistici, in bianco e nero, ma le complessità delle relazioni umane sono aggrovigliate allora come oggi. Ambientato a Los Angeles all'apice della crisi missilistica di Cuba, A SINGLE MAN narra la storia di George Falconer, un professore universitario inglese di 52 anni [Colin Firth], che fatica a trovare un senso alla propria vita dopo la morte del compagno Jim [Matthew Goode]. George vive nel passato e non riesce a vedere il suo futuro. Nell'arco di una giornata, in cui una serie di eventi e incontri lo porta a decidere se la vita dopo Jim abbia un senso oppure no, George trova conforto nella sua più cara amica, Charley [Julianne Moore], una splendida 48enne, anche lei alle prese col suo futuro. Un giovane studente di George, Kenny [Nicholas Hoult], che sta iniziando ad accettare la propria omosessualità, perseguita George e lo considera l'anima gemella...
fonte scheda http://www.comingsoon.it/
martedì 26 gennaio 2010
Quattro chiacchiere al bar: rassegna letteraria analcolica!!!

Venerdi 12 febbraio, alle 19.00, saranno presentate tre opere poetiche, sempre edite da Lupo: “Divento” di Anna Maria De Luca, “Come fanno le serpi a primavera” di Patrizia Ricciardi, “Altri versi” di Elio Ria. Ne parleranno Stefano Donno, scrittore e poeta, direttore della collana “Ciribibi” nella quale sono pubblicati questi libri, e Pierluigi Mele, scrittore e attore. Letture a cura di Anna Maria Mangia. Sarà offerto un rinfresco dal Bar La Grotta. Alla fine delle serate, “Cena letteraria” presso il Ristorante Maturo di Ruffano, per quanti vorranno continuare ed approfondire la conoscenza degli autori e dei relatori dei due incontri letterari.
I libri:
1) Maravà di Gianni De Santis (Lupo editore)
“… ma noi cosa potevamo sapere, se guardavamo in alto immaginando di raggiungere il cielo per liberare il volo sulle ali della nostra fantasia? Correvamo nei campi spiccando salti incredibili, felici sui nostri piedi di gomma e ad ogni salto lasciavamo indietro un pezzo del nostro tempo, catapultati verso la strada del nostro destino…”. Devono essere sicuramente di gomma i piedi dei primi astronauti sbarcati sulla Luna, per consentire loro la lievità degli angeli. È quello che credono due ragazzini legati fin dalla prima infanzia da un ferreo vincolo di amicizia e dal sogno condiviso di volare: verso il futuro, verso la vita. Ma la vita a volte separa e dal sud semplice e agreste in cui è nato Antonio si trova quasi sperduto nelle solitudini e nelle fatiche di una precoce emigrazione. Decine di lettere mantengono vivo il rapporto con Raffaele, l’amico lontano. Al paese c’è anche Maria ad attenderlo, col suo amore sfuggente e possessivo, con i suoi sogni incapaci di venire a patti con la realtà. Antonio, Raffaele, Maria segnano tutti di “volare”, ciascuno a modo suo, andando incontro ad un destino che tradisce la loro giovane esistenza. Il romanzo parla di questa preziosa scoperta, dimostrando come dalla prigionia del corpo possano spuntare ali per lo spirito e grata consapevolezza degli affetti da cui si sono ricevuti gioia e nutrimento. Una intensa storia umana, un inno alla vita e all’amicizia.
2) Elio Ria, Altri versi Lupo editore
Pubblicato dall’editore di Copertino “Lupo”, “Altri versi” di Elio Ria è un’interessante raccolta poetica. Il libro si apre con questi versi: “le mani sudano speranza oltre la ragione, e / gli occhi pietrificano nella clausura del dubbio / nella stanza ovattata della memoria” (p. 5). Partendo dalla “clausura del dubbio”, la poesia di Elio Ria percorre fino in fondo la strada dell'irrequietezza spirituale dell'uomo contemporaneo. Se possiamo definire questa una “poesia metafisica” e filosofeggiante, altrettanto semplice sarà comprenderne la motivazione più intima: attraverso l’invocazione e la preghiera, così come l’immaginario biblico propone con la figura del profeta Isaia (nel sogno di Isaia la preghiera è rappresentata da una scala tra terra e cielo) la realtà del vivere quotidiano diventa una continua ricerca di sé in senso morale, prerogativa tanto cara alla letteratura del secolo scorso e in aperta polemica con il nichilismo etico del mondo contemporaneo. Scrive Ria: “senz’anima in un cielo sciupato / incompleto e disadorno / arranco in controverse verità / Edulcoro la realtà / invento dogmi immateriali / disperdo nella follia il limite” (p. 12). Oppure: “ho messo piede nel bosco / il cuore strozzato dall’angoscia / rendeva il cammino incerto / ho provato con le mie mani lunghe / ad accarezzare i rami muscolosi / degli alberi fieri ma sonnambuli / in quel mondo di quiete / io sulla barella dell’urgenza / rinsavito dal profumo pungente / ho ceduto il sonno per la vita” (p. 26). Ora, sul piano tecnico, i versi proposti da Elio Ria non possono definirsi di certo originali, ma dimostrano di possedere la sufficiente solidità stilistica per essere letti e apprezzanti. Elio Ria è nato a Tuglie (Le) nel 1958. Ha in precedenza pubblicato altri lavori, tra cui ricordiamo la raccolta poetica “La mia solitudine” (Kimerik, 2007).
3) Patrizia Ricciardi, Come fanno le serpi a primavera (Lupo editore)
Ognuno di noi è un'isola. Anzi no. Ce lo dimostra Patrizia Ricciardi, con questa sua prima pubblicazione, una raccolta di poesia, che giunge ora, dopo un'intera vita a scrivere. Si intitola “Come fanno le serpi a primavera” la silloge edita da Lupo, che raccoglie le liriche di questa poetessa salentina, di argomento assai vario, anche se sono rintracciabili moltissimi topoi presenti nella poesia locale, dalla più classica di Vittorio Bodini a quella più postmoderna di Salvatore Toma, cui è dedicato un componimento, tra qualche rima e assonanza assolutamente non casuale e versi in vernacolo che fanno entrare nell'atmosfera. Si rintraccia un Salento fatto di colori e odori, case bianche di tufo e lune della notte di san Martino, fiori dai nomi apparentemente esotici, ma che “fanno casa”, tra animali, proprio come accade nella vita reale dell'autrice. Accanto all'intimismo dei sentimenti personali esiste un filone di lotta e di ideali, che esprime dissenso contro la guerra denunciandone gli orrori e si augura fiducioso un futuro migliore per l'intera umanità. Si legge nella prefazione di Donatella Neri: “La poetica di Patrizia Ricciardi è così, di totale adesione al dolore del vivere e alla continua rinascita che il dolore comporta, capace di sdegno e amarezza come accoglienza dolce al nuovo”. (Angela Leucci)
4) Anna Maria De Luca, Divento (Lupo editore)
Desiderio e assenza, libertà e perdita , eros e solitudine, confinano con il silenzio. Anna Maria De Luca fa della poesia la cifra che del silenzio scioglie i nodi e ne fa scaturire la voce. Parola che sembra plasmarsi dentro un gioco linguistico d’invenzione, nel linguaggio cifrato della fantasia, dove il tempo, non quello reale ma quello della scrittura e del racconto, è un lemma di alta frequenza nel tessuto verbale, in quell’attesa dell’epifania dei segni slegata dalla realtà.
Non si conosce la grammatica, tutto resta fuori e hanno forza solo le parole senza notizia che delineano una traccia nell’arrendersi all’altro mediante Verba, pensiero del tu. Parole coscienza-conoscenza-appartenenza a quel “In principio era il Verbo”, parole ripulite di tutto l’artefatto, maglie di una catena del sentire. Parole, gioco di parole, parole soffocate, graffiate, smaterializzate, scarne, essenziali. “Pa-ro-le, pa-ro-le, solo parole impastate di terra rossa e acqua di mare. Parole sempre acerbe, come l’Amore errabonde nel reticolo cangiante delle vene o imbrigliate nel cuore incastonato nei denti”. Parole, in cui affogare mille pensieri, sui mari d’inchiostro nell’attesa, scandita dal silenzio, del sole splendente di vita. Parole-rete per entrare in sintonia con la verità del mondo in un’atmosfera aurorale. Limpide, trasparenti, energiche. Parole-eros, palpitanti, pulsanti, in cui fluttuano i pensieri nei ritmi della materia. Materia e cuore sembrano coagularsi nei versi di Anna Maria De Luca: “ E la malinconia è una serpe lunga e sottile che si raggruma nello stomaco. E che porta lontano, come il treno dell’addio”. Parole che s’incarnano nell’eros, volto dell’anima, nella seduzione di certi gesti, nella magia sconcertante di certe esperienze, in cui l’io/altro diventa “rasoio tagliente… tra le socchiuse gelosie ardente”, nella musicalità seducente di quell’“ente-ente” dove l’io/tu è rappresentato da interminabili file di stanze incatenate in un noi. E’ la sacralità dell’amore che si consuma in quella della parola attraverso icone e immagini nelle quali sopravvivono fisicità e metafisicità. Catene, catene, cuore incatenato e parole che lasciano correre un battito prepotente, intermittente, a volte, spesso, bloccato in un pensiero fisso, in un tormento, “in una raffinata melodia sigillata in una conchiglia avvitata sul cuore”. Amore-prigione, chiuso nella bontà, bloccato nell’abitudine, nella fissità, nella tirannia, nella gelosia. Amore che non concede il lusso della fuga e “tuttavia qualcosa risplende nel silenzio”. Parole luce sulla carta, quelle dell’autrice, non parole-moneta né macchine remuneratrici. Parole apoftègma, frutto di germinazione nel silenzio, nel dolore, in cui il lettore gusta l’evento della donazione in un andare nella parola-scrittura, nella parola-dono. Ed è vero Poeta colui il quale ci fa gustare la forza delle parole.
Info: 348.1306103 338. 9821988
www.prolocoruffano.com
David Foster Wallace visto da Vito Antonio Conte

Perché David Foster Wallace sì è suicidato?
“Ci sono due tizi seduti a un bar nel cuore selvaggio dell'Alaska. Uno è credente, l'altro è ateo, e stanno discutendo l'esistenza di Dio con quella foga tutta speciale che viene fuori dopo la quarta birra. L'ateo dice: - Guarda che ho le mie buone regioni per non credere in Dio. Ne so qualcosa anch'io di Dio e della preghiera. Appena un mese fa mi sono lasciato sorprendere da quella spaventosa tormenta di neve lontano dall'accampamento, non vedevo niente, non sapevo più dov'ero, c'erano quarantacinque gradi sottozero e così ho fatto un tentativo: mi sono inginocchiato nella neve e ho urlato:
Perché David Foster Wallace si è suicidato?
Forse, anzi senza forse, la domanda giusta, pensando a Wallace, per quel poco che di lui so, è: perché, nel genere umano (ma, almeno sembra, anche in quello animale: penso agli elefanti che si lasciano morire... o a certi spiaggiamenti sospetti di cetacei... o -pure- a certi voli insensati delle rondini...), alcuni compiono gesti d'irrimediabile autolesionismo? Perché? Tradotta in tutte le lingue, questa parola (why, pourquoi, warum...), riferita alla fine autoinflitta, significa sempre e soltanto un interrogativo senza alcuna risposta univoca. Quand'ero universitario (Facoltà di Giurisprudenza, come tutti quelli che non sapevano cosa cazzo fare nella vita -nel mio caso, però, avendo chiaro cosa volevo farne della vita-), rammento che per sostenere l'esame di “Sociologia” (mutuato dalla Facoltà di Magistero) bisognava studiare tre testi: il primo: non so di chi fosse né come si titolasse (e, invero, mi sfugge anche il contenuto), il secondo: “La devianza” di Tamar Pitch, il terzo: “Le tappe del pensiero sociologico” di Aron Raymond. Un mio conoscente -poco più che ventenne...- si era buttato sotto un treno... e nessuno -al mio paese- aveva compreso le ragioni di quel gesto. Pochi, forse, se l'erano chiesto davvero. Io ne parlai con qualche mio amico. E non trovammo risposte. Esaurienti, intendo. Fu anche per questo se decisi di fare quell'esame. Per approfondire. Leggendo chi l'argomento aveva trattato approfondendolo. Così incontrai Aron Raymond e... il suicidio... sulla carta. Quello che cercava di spiegare i motivi del suicidio reale. In particolare, mi colpì quanto era stato elaborato, in proposito, da Emile Durkheim. Dopo aver chiarito che la sociologia non è (e non dev'essere) una filosofia della storia con la presunzione di scoprire le regole generali che improntano la marcia del progresso dell'intera umanità, nè una metafisica in grado di determinare la natura della società, né psicologia o filosofia, Durkheim affermò che la sociologia è una scienza -autonoma e diversa dalle altre scienze- il cui oggetto di indagine specifica dovevano essere i “fatti sociali” (intesi “come delle cose” del tutto irriconducibili ai “fatti della coscienza individuale”, anzi determinanti questi ultimi). “Quasi tutto ciò che si trova nelle coscienze individuali viene dalla società”: è un pensiero di Durkheim che spiega bene il concetto sopra espresso. E, all'un tempo, una qualche affinità e la distanza di tale pensiero da quello di Wallace... Dopo aver discusso della predisposizione psicologica e della determinazione sociale del suicidio, Durkheim distinse, basandosi su delle comparazioni statistiche, tre tipi di suicidio inerenti tre tipi di solidarietà sociale. Il suicidio altruistico: provocato da motivi sociali, come quando un uomo si uccide per evitare il disonore, o come quando una persona anziana di una tribù nomade si toglie la vita per evitare di essere di peso al gruppo (probabilmente quello più vicio al mondo animale). Il suicidio egoistico: tipico di una situazione sociale in cui prevalgono la responsabilità, l'iniziativa individuale e la libera scelta personale. Il suicidio anomico: anomia è una situazione sociale in cui non esistono più leggi e regole, ovvero le stesse sono confuse e contraddittorie. In tale situazione, anche se il gruppo permane, non c'è più solidarietà e l'individuo non ha più punti di riferimento. L'anomia è uno stato di disordine e Durkheim si rese conto che la percentuale dei suicidi aumentava nelle epoche di forte depressione economica e di dissesto sociale, siccome cresceva pure nei periodi di prosperità inattesa e improvvisa: la depressione e la prosperità porterebbero, secondo Durkheim, al crollo delle aspettative e con ciò all'aumento dei suicidi. Non aggiungerò altro su Durkheim e sulle sue teorie. Rifletto soltanto che -forse- il suicidio anomico è quello più calzante alla condizione umana attuale. Senza con ciò risolvere alcunché, ovvio! C'è che mi riesce di estrema difficoltà comprendere i motivi del suicidio. In generale. E di Wallace, in particolare. Per quanti ce ne possano essere. Non è che non comprendo le ragioni di un suicidio... Ripeto, ce ne sono infinite. È che -pur avendoci pensato- c'è qualcosa che mi sfugge. E non mi interessa il coraggio ovvero la vigliaccheria che inducono a farla finita. Non è questo. Non sono i suicidi in carcere, né quelli per disperazione, impotenza, sofferenza, delusione o male di vivere... Qualcosa mi sfugge e non vi tedierò più con le domande, però chiedetevelo. Forse, nel caso di Wallace, la chiave è il concetto di “disadattato” a poter aprire uno spiraglio. Forse, è nella natura delle cose. So che, se non avessi saputo che Wallace si è impiccato (e non tirato un colpo d'arma da fuoco alla testa...), non avrei mai immaginato, dopo aver letto “Questa è l'acqua” (Einaudi Stile Libero), che David Foster potesse compiere un simile gesto... per quanto Durkheim... l'avesse già detto. “Questa è l'acqua” è stato pubblicato nel primo anniversario della morte di Wallace e raccoglie sei testi, di cui quello che dà il titolo al libro è l'ultimo ed è la trascrizione del discorso che DFW tenne nel 2005 ai laureandi del Kenyon College. “Questa è l'acqua” è il mio primo vero contatto con DFW. E ringrazio Cristina, che mi ha fatto dono di questo libro. Un libro che dovrebbe essere inserito nell'elenco dei libri di testo di ogni scuola, di ogni ordine e grado. Un libro che suggerisce un modo altro di imparare a pensare. Un libro che sposta il sentire dalla “modalità predefinita”, dall'attenzione naturale e codificata puntata sul proprio ego, all'ascolto delle voci e dei silenzi esterni che, invero, coincide -se impariamo a come e a cosa pensare- con quel che succede dentro depurato dalle modalità predefinite. “Il cosiddetto
Chissà?
Quando leggerete questo pezzo lo sapremo tutti.
Chissà?
Nichi, secondo me, lo sa.
Pur continuando, anche lui, a chiedersi: - Perché si è ucciso DFW?
fonte iconografica: http://theexperiencegalleryblog.files.wordpress.com/2009/08/david-wallace.jpg
lunedì 25 gennaio 2010
Da "Il tempo di Woodstock" di Ernesto Assante e Gino Castaldo (Laterza) a "1969" di Riccardo Bertoncelli (Giunti). Intervento di Nunzio Festa

domenica 24 gennaio 2010
Sl: Second life ovvero finalmente si può vivere due volte. Intervento di Maria Beatrice Protino

China Tracy è il nome dietro cui si nasconde la cinese Cao Fei (www.caofei.com): China è il suo Avatar, la sua rappresentazione digitale in ambiente tridimensionale o virtuale. Cao Fei vive a Pechino, è ai vertici dell’arte cinese contemporanea, addirittura tra i candidati al prossimo Hugo Boss prize, il premio per l’arte contemporanea che si svolge ogni due anni, coordinato Guggenheim Museum di New York e che annovera tra i vincitori artisti del calibro di Matthew Barney e Tacita Dean. Nei primi mesi del 2009 inaugura la sua città virtuale Sl, Rmb city (www.rmbcity.com) e ad Art Basel Miami la sua galleria Lombard-Fried Project si trasforma in una sorta di agenzia immobiliare che con video e brochure vende spazi virtuali a prezzi molto reali, dagli 80mila ai 200mila dollari. Basta connettersi a www.secondlife.com per ritrovarsi in una comunità virtuale tridimensionale creata nel 2003 dalla società americana Linden lab.
Gli utenti iscritti e partecipanti sono quasi 10 milioni, i frequentatori attivi 1 milione e mezzo, ognuno dei quali ha un personaggio che lo rappresenta in un vero e proprio gioco di ruoli. Per entrare in Sl occorre essere maggiorenni, crearsi un account, scegliere un nome e costruirsi l’avatar, tutto gratuitamente. In un’intervista rilasciata da Cao Fei alla giornalista Cristiana Campanini per Arte, l’artista dichiara che, anche se non ha mai cercato di fuggire dalla sua realtà, «l’attenzione è sempre stata alta verso qualsiasi stato d’animo che permettesse un’evasione», come avesse una nostalgia del fantastico. «C’è un punto d’incontro tra la vita reale e quella virtuale ed è dura, a volte, separare i sentimenti. Sl è un luogo in cui riflettere sulla nostra vita e le nostre aspirazioni». Così, dice l’artista, quando China Tracy ha una storia d’amore in i.Mirror -il celebre documentario su Second Life da lei proposto alla Biennale di Venezia nel 2007 e in cui l’artista affronta il tema dello spazio virtuale come inquietante specchio della realtà - la storia d’amore che vivrà China probabilmente apparterrà anche a Cao, perché «è un sentimento indefinibile, che unisce reale e virtuale, distanza e immaginazione, perfezione astratta digitale e spazio-tempo del nostro quotidiano». È un progetto di cultura contemporanea a cui lavorano una decina di persone. La città creata è utopica e l’ispirazione si rifà alle metropoli cinesi contemporanee. «Si vendono edifici virtuali a musei e collezioni private. Poi lavoriamo insieme agli acquirenti per sviluppare idee per quegli edifici. Dopo due anni, le collezioni ricevono un lavoro tangibile da China». Il progetto appare molto originale, perché non risponde a esigenze d’intrattenimento tipiche della società virtuale: la città è aperta, sfuggente e tende a tenere profondamente separate le due realtà, reale e virtuale. Provare per credere.
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sabato 23 gennaio 2010
"Olive Kitterdge”, di Elizabeth Strout (Fazi Editore). Intervento di Vito Antonio Conte

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venerdì 22 gennaio 2010
FELICIDADE CLANDESTINA – CLARICE LISPECTOR ( EDITORA ROCCO) . Intervento di Adriana Maria Leaci

Felicidade Clandestina nasce primeiro como um conto para o Jornal do Brasil, ao que seguiram outros mas, quando a mesma Clarice percebe que estão para acorrentá-la num gênero literário, se desprende do compromisso do jornal e escreve outros contos, reunindo 25 entre contos e crônicas num mesmo volume em 1971. A autora desprezava os rótulos que pudessem escravizá-la no tempo. Se sentia livre e só a liberdade lhe daria a inspiração ideal para produzir o que nos presenteia com este livro. Cada vez que foi entrevistada rejeitou conceitos que a definissem, que a colocassem numa posição fixa da literatura brasileira. Clarice Lispector sobrevive a todos os desconcertos, a despeito de quem não acreditava que um mito intelectual pudesse ser sinônimo de mulher. Sua morte prematura devido a um mal incurável não a destacou da terra vivente, pois a sua energia ainda contagia, ainda emociona e conquista os apaixonados pela leitura, que conseguem apreciar tudo o que não é banalidade vendido nas livrarias.
FELICIDADE CLANDESTINA – CLARICE LISPECTOR. EDITORA ROCCO – RIO DE JANEIRO - 1998
LITERATURA BRASILEIRA – CONTOS E CRÔNICAS
giovedì 21 gennaio 2010
L’Italia de noantri di Aldo Cazzullo (Mondadori). Intervento di Maria beatrice Protino

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mercoledì 20 gennaio 2010
“Come fanno le serpi a primavera” di Patrizia Ricciardi (Lupo editore). Intervento di Angela Leucci

martedì 19 gennaio 2010
MEMORIE DAL BUIO (Lupo editore): oltre la Shoah, la vita ritrovata nella voce di Aharon Appelfeld

ANIME SRADICATE. Di Aharon Appelfeld ha scritto anche Philip Roth: “L’arduo viaggio che nel 1946 portò Appelfeld ad approdare sulle spiagge di Tel Aviv sembra avere sviluppato in lui un’inesorabile attrazione per tutte le anime sradicate… Uno scrittore che ha fatto del distacco e del disorientamento un tema unicamente suo”. Forse anche per questo Roth ha scelto Appelfeld come uno dei protagonisti del suo ultimo libro, “Operazione Shylock”. Il documentario di Del Prete è lungo 42 minuti che scorrono lenti e delicati, in un susseguirsi di intense emozioni trasmesse da toni pacati, dal racconto, più che dei fatti già passati alla storia, delle sensazioni e degli stati d’animo di un bambino, poi adolescente, poi uomo che ha fatto i conti con i ricordi, con le esperienze dolorose che invano, lui come gli altri profughi, pensò di scrollarsi di dosso alla fine della guerra, quando “nessuno sapeva cosa fare della vita che aveva salvato”, perché “la memoria ha radici profonde nel corpo”.
STORIA DI UNA VITA. Ogni esperienza, anche la più terribile, è parte della “Storia di una vita”, quella raccontata nel suo libro così intitolato, di cui alcuni passi, letti da Renato Grilli su sfondo nero, intervallano le “risposte” e le foto d’epoca dell’archivio di Paolo Pisacane, che ritraggono i profughi ebrei a Santa Maria al Bagno, mentre tornano a scoprire l’umanità, a sentirsi vivi, “un’Italia non antisemita”, ricorda Appelfeld. Sgorgano così “memorie dal buio”, l’incanto di un incontro capace di insegnare, far riflettere, non dimenticare.
LE EMOZIONI OLTRE L’EGOISMO. Aharon Appelfeld, nella conversazione con Del Prete, fa un auspicio: “I giovani devono essere sensibili verso gli altri esseri umani, verso gli animali, verso la natura, verso le emozioni. E la sensibilità si coltiva con la musica, con la buona letteratura, con il buon teatro, con il buon cinema… Per essere un buon essere umano bisogna coltivare la propria sensibilità, essere in contatto con le sorgenti che alimentano la nostra sensibilità. Non è qualcosa che va e viene, è qualcosa che si deve alimentare sempre, che bisogna sviluppare. Senza sensibilità la nostra vita diviene un qualcosa di molto limitato, è una vita priva di orizzonti una vita edificata solo sull’egoismo, una vita povera”. “Memorie dal buio”, straordinaria occasione di conoscenza e di riflessione sull’immane tragedia della Shoah, è prodotto da Lupo editore e Fondazione Moschettini
lunedì 18 gennaio 2010
La pièce"Ciao Maschio!" tratta dall'omonimo libro di Valeria Parrella edito da Bompiani viene recensita da Elisabetta Liguori

domenica 17 gennaio 2010
Avatar, il nuovo film di James Cameron: potere all'ecologia! Intervento di Luciano Pagano

Avatar, il nuovo film di James Cameron destinato a sbancare i botteghini di tutto il mondo, è sostanzialmente una favola ecologista. Un kolossal che racchiude in sé tutto il meglio, a vederlo, dei film epici e delle saghe ai quali lo spettatore è stato affezionato negli ultimi trenta anni, da Guerre Stellari al Signore degli Anelli. La prima cosa che mi ha colpito positivamente di Avatar è stata la mancanza di ogni tentativo di comunicare una “morale” in senso lato. Mi spiego. Quando il protagonista/avatar entra in confidenza con la popolazione degli indigeni di Pandora (i Na’vi), entra a far parte di un vero e proprio mondo nel quale, antropologicamente parlando, non abbiamo che di scoprire. Nel film veniamo a contatto con i riti e le usanze di un popolo prima d’ora sconosciuto; un popolo che danza all’unisono, che caccia, che danza, che vive all’interno di un albero accovacciandosi in amache ricavate da foglie giganti. Una popolazione che ‘adora’ la natura ed è strettamente in comunicazione con essa. Il protagonista una volta entrato a far parte di questo mondo ne acquisisce le tradizioni, fino a diventarne un abitante in piena regola. La parte del film dedicata all’approfondimento di questi aspetti è così curata e così preponderante rispetto al resto (laddove per resto si intenda l’incipit e la prima dimestichezza con la tecnologia avatar e la conclusione finale della Grande Battaglia) che lo spettatore ha modo di affezionarsi a una popolazione appena conosciuta, dispiacendosi della brutalità dei tentativi con cui verrà brutalmente combattuta. L’effetto di ciò che avviene in seguito, quando i terrestri vogliono forzare la colonizzazione di Pandora, è molto simile nel copione a ciò che potrebbe avvenire in film come 1492. Il capo della spedizione pensa soltanto al profitto che può trarre dai minerali, che cosa può interessargli dei discorsi vanesi di una Sigourney Weaver, la scienziata che ha scoperto che gli abitanti di Pandora sono in collegamento (network) con le piante e con la terra del loro pianeta, che costituiscono cioè una Rete di informazione e memoria storica? I militari riceveranno l’ordine di attaccare il Paradiso Terrestre, con le ruspe, l’esercito, gli aerei, gli elicotteri/libellula e i missili aerocomandati. Una delle cose che di sicuro colpirà gli spettatori sarà il pianto degli indigeni quando avverrà la profanazione dei loro luoghi di culto e la distruzione del loro Albero Totem Villaggio, nel quale vivono. Parlavo dell’assenza di una volontà di comunicare una morale. Il messaggio di fondo ecologista c’è, questo è vero, ma il tutto viene presentato rapidamente e con una leggerezza tale da non appesantire la visione del film come spettacolo puro. Non c’è lo spessore sufficiente perché le micro-storie (tranne quella tra il protagonista e la figlia del Re) vengano approfondite a scapito della narrazione. Tutto scorre rapidamente e, a essere sinceri, la durata totale della pellicola è poca rispetto a tutti gli spunti che vengono dati in pasto allo spettatore. Non a caso si parla di un kolossal dell’era Obama, semplicemente perché questa pellicola è la prima di questo livello nella quale si sia trasportata una sensibilità ‘differente’ nei confronti di un approccio all’altro. Per una volta gli americani, qui i “terrestri” (You’re not in Kansas anymore…), vengono messi da subito in cattiva luce quando la loro intenzione è quella di arrivare, prendere tutto e tornare a casa, senza preoccuparsi della civiltà e della popolazione con cui vanno a scontrarsi. Quando tutto sembra perduto, quando ogni sforzo di contrastare l’attacco (anche sullo stesso campo dei nemici) sembra vano, ecco che è la stessa natura a raccogliere tutte le sue forze per ribellarsi in un attacco finale e risolutivo; anche qui vengono rispettati i principi di Gaia, secondo la quale il pianeta è dotato di una capacità di autoregolamentazione tale per cui nonostante i nostri sforzi per distruggerlo esso è capace di salvarsi e preservarsi autonomamente. La seconda riflessione, questa localizzata nella prima parte del film, è quella relativa al rapporto tra realtà vera e realtà virtuale. Quando parliamo di realtà virtuale siamo abituati a immaginare un qualcosa che è separato da noi e che non può essere contiguo. La genialità della soluzione inventata da Cameron per Avatar sta, secondo me, nel fatto che la realtà virtuale (l’Avatar vero e proprio) convive nello stesso spazio e nello stesso tempo, ovvero sia condivide lo spazio e il tempo, dell’originale. Quando il protagonista è nel suo avatar, il suo corpo è fisicamente in un altro luogo, quando Jake Sully deve risvegliarsi ecco che il suo avatar, nella foresta, cade in preda al sonno, letteralmente come corpo morto cade, sviene a terra. Una soluzione narrativa che rende la continuità tra protagonista Jake Sully e il suo avatar. Ogni riferimento all’avatar inteso come a doppio di una ipotetica Second Life filmica precipita prima ancora di prendere il volo, l’Avatar, in questo film convive in un altro spazio, comunque vicino, con l’originale. Tanto è vero che Jake Sully sarà quasi sempre accompagnato alla dottoressa Grace Augustine (Sigourney Weaver) anche quando prenderà il comando della ribellione della popolazione nativa. Al di là degli effetti speciali e di tutto ciò che concerne la tecnologia applicata , ciò che resta di Avatar è una favola/storia romantica nella quale una volta tanto non bisogna stare a rimpiangere il tempo passato, osservando le macerie e la distruzione che sono state portate come ferite dall’uomo bianco, in questo caso il “terrestre”. Almeno il finale è consolatorio, abbastanza perché ci si aspetti un Avatar 2, con il ritorno di chi è stato cacciato e una conseguente, nuova battaglia per la salvaguardia del Paradiso Terrestre, sia che si tratti di un paradiso proiettato nel 22 secolo sia che si tratti del nostro mondo. Buona visione.
su concessione dell'autore
fonte iconografica: http://www.cinematografo.it/cinematografo_new/allegati/12929/avatar_occhio.jpg
sabato 16 gennaio 2010
“Tredici di me” di Annamaria Mangia. Intervento di Angela Leucci

Alla Focara di Novoli con Lupo editore la letteratura s'infiamma

PROGRAMMA DELLA LUPO EDITORE ALLA FOCARA DI NOVOLI
17 Gennaio ore 17,00 Tenda del Fuoco , Novoli
Presentazione de "La Quinta Favilla" (Lupo editore) di Anna Grasso e Arianna Provenzano. Incontra le autrici - Raffaele Polo. Interverranno Il Sindaco di Novoli Oscar Marzo Vetrugno e l'arch. Antonio Curto Consulente Culturale del Comune di Novoli
Il libro:
Antonio ha un sogno, quello di un fratellino che ancora non viene. Ha anche una speranza e - mentre in campagna i portatori raccolgono in fascine le sarmente per la grande focara di Sant’Antonio - si prepara con emozione all’appuntamento più atteso dell’anno. Potrà attuare questa volta il suo rito magico? Scenderanno accanto a lui le prime cinque faville?
17 Gennaio ore 18,00 Tenda del Fuoco, Novoli
Presentazione della Collana Ciribibi (Lupo Editore) diretta da Stefano Donno e che presenterà gli autori Elio Ria , Patrizia Ricciardi, Anna Maria De Luca, Elio Coriano. Letture a cura di Annamaria Mangia
Ciribibi collana diretta da Stefano Donno
L’intensità di un sentimento, il trillo di un suono, un leggero sbatter d’ali, parole sussurate a fil di fiato, il rifrangersi della luce sulle nostre vite, un attimo … ed è Poesia. Ciribibi è la collana dedicata a tutti i poeti che credono nella magia e nell’incanto dei versi.
Presentazione di
"Divento" (Lupo editore) di Anna Maria De Luca. Dialoga con l'autrice Stefano Donno e Sandrina Schito
Interverranno Il Sindaco di Novoli Oscar Marzo Vetrugno e l'arch. Antonio Curto Consulente Culturale del Comune di Novoli
I libri:
Elio Ria, Altri versi
"Leggere Elio Ria è viaggiare in carrozze di poesia su binari d’anima, rotaie parallele e opposte di conferma e di disconferma di sé, un viaggiare che disorganizza il tempo nei ricordi in cielo, in senso inverso al vero, nella magia del sogno" Elena Franchitti. L’opera è suddivisa in sei sezioni: La perversione del dubbio - Nel silenzio del dolore - Dio, gli uomini, i sacerdoti e il male - La magia di un Sud persa nella credenza - Versi diversi - Il Tempo. I testi evidenziano l’attrazione che il poeta prova verso contenuti metafisici e la sua propensione alla problematizzazione del reale alla ricerca filosofica.
Patrizia Ricciardi, Come fanno le serpi a primavera
Noi camminiamo al vento, gli occhi storti, soli di fatto e aspri nel respiro. Nell’essenzialità espressiva di questa raccolta, la poesia appare come suprema dignità del dolore e della solitudine, come cifra di verità difficili e trasfigurazione del quotidiano. C’è qualcosa di eversivo nelle poesie di Patrizia Ricciardi, un fermento sotterraneo che percorre il linguaggio di ogni giorno che si fa allegoria e percorso.
Anna Maria De Luca, Divento
Desiderio e assenza, libertà e perdita , eros e solitudine, confinano con il silenzio. Anna Maria De Luca fa della poesia la cifra che del silenzio scioglie i nodi e ne fa scaturire la voce. Parola che sembra plasmarsi dentro un gioco linguistico d’invenzione, nel linguaggio cifrato della fantasia, dove il tempo, non quello reale ma quello della scrittura e del racconto, è un lemma di alta frequenza nel tessuto verbale, in quell’attesa dell’epifania dei segni slegata dalla realtà.Parole coscienza-conoscenza-appartenenza a quel In principio era il Verbo, parole ripulite di tutto l’artefatto, maglie di una catena del sentire. Parole, gioco di parole, parole soffocate, graffiate, smaterializzate, scarne, essenziali. Parole, in cui affogare mille pensieri, sui mari d’inchiostro nell’attesa, scandita dal silenzio, del sole splendente di vita. Parole-rete per entrare in sintonia con la verità del mondo in un’atmosfera aurorale. Limpide, trasparenti, energiche. Parole-eros, palpitanti, pulsanti, in cui fluttuano i pensieri nei ritmi della materia. E’ la sacralità dell’amore che si consuma in quella della parola attraverso icone e immagini nelle quali sopravvive fisicità e metafisicità. Ed è vero Poeta colui il quale ci fa gustare la forza delle parole. (Teresa Romano)
foto di Tonio Serio
venerdì 15 gennaio 2010
Perché ho smesso di scriverti versi, di Simone Consorti (Aletti editore)

D’ in sulla vetta d’ una torretta
Visionario, solitario stai
Passero che sogni ben altra vetta
Passero che non ti passerà mai
Di lì vedi dentro una toletta
Una donna che con gesti gai
E’ più di mezz’ ora che si umetta
Mentre in cucina il forno fa guai (…)
giovedì 14 gennaio 2010
“In viaggio con la poesia”. Ritratti di Poesia – quarta edizione

La manifestazione verrà aperta ufficialmente nella tarda mattinata dal Sen. Sandro Bondi, Ministro dei Beni e delle Attività culturali e dal Presidente Emanuele, che porterà il suo saluto a partecipanti e pubblico. Quest’anno la rassegna amplia le sue proposte con tre nuove iniziative. La prima novità, “Ritratti di poesia internazionale”, è un incontro con tre poeti stranieri dell’area mediterranea, lo spagnolo Juan Carlos Mestre, il greco Sotirios Pastakas e la siriana Maram Al-Masri, che leggeranno alcuni dei loro componimenti poetici più noti. L’appuntamento riprende una delle principali finalità perseguite dalla Fondazione Roma Mediterraneo, nata su proposta del Presidente Emanuele nel 2008 dalla Fondazione Roma, ovvero la promozione del dialogo tra i Paesi che si affacciano sul Mare Nostrum, nel superamento delle barriere di ordine culturale, sociale, religioso ed economico che ancora oggi dividono i popoli. L’attenzione alla storia letteraria spiega la seconda novità dell’edizione 2010, il “Premio Fondazione Roma – Ritratti di Poesia”, un riconoscimento alla carriera per un poeta italiano che ha contribuito all’affermazione della cultura nazionale al di là dei confini. A leggere le poesie del vincitore sarà l’attore Cosimo Cinieri. La terza novità della rassegna, dal titolo “Poesia e canzone d’autore”, è rappresentata da “In-Cantus”, uno spettacolo ideato dal maestro Beppe D’Onghia e interpretato da Roberto Vecchioni, in cui si fondono musica classica e contemporanea, melodie tradizionali e versi d’autore, per dimostrare come il linguaggio poetico percorra le epoche, gli stili, le forme d’espressione, restando capace di parlare a tutti. Vecchioni dialogherà con il pubblico, parlando del proprio rapporto con la poesia.
La manifestazione riprenderà anche molti degli appuntamenti sviluppati con successo nelle precedenti edizioni, come l’incontro che aprirà la giornata, un “dialogo” del poeta Roberto Piumini con gli alunni di alcune scuole medie romane. A seguire, dopo l’apertura ufficiale della manifestazione, sette poeti emergenti italiani, Beatrice Bressan, Tiziana Cera Rosco, Irene Ester Leo, Bianca Madeccia, Roberto Raieli, Vanni Schiavoni e Sarah Tardino, leggeranno i propri versi e parleranno di un poeta importante per la loro formazione. A conclusione della mattinata verrà assegnato il “Premio Fondazione Roma – Ritratti di Poesia”. Il pomeriggio si aprirà con l’omaggio a un grande poeta straniero del Novecento. Dopo Jorge Luis Borges, quest’anno sarà il turno del cileno Pablo Neruda, premio Nobel per la letteratura nel 1971. A dare voce ai suoi versi sarà Luca Barbareschi. Subito dopo, l’appuntamento con “Ritratti di poesia italiana”, in cui interverranno quattro importanti protagonisti del panorama letterario nazionale, Antonella Anedda, Maria Grazia Calandrone, Dante Maffia e Gabriella Sica.
La giornata si concluderà con “Ritratti di Poesia internazionale”, appuntamento con i poeti del Mediterraneo e con lo spettacolo “In-Cantus”. All’interno del Tempio di Adriano, inoltre, saranno presenti punti di incontro con case editrici (“ilfilodipartenope” con una selezione di libri d’artista, “Manni”, “nottetempo”), e riviste di settore (“erbafoglio”, “Polimnia”), oltre a uno spazio multimediale dedicato alla poesia in rete. Ritratti di Poesia anche quest’anno sarà presente in rete. La manifestazione è aperta al pubblico con ingresso libero fino ad esaurimento dei posti.
Info, contatti e accrediti stampa:
Carla Caiafa
Fax - 06/98188903
338/6812902
06/98188901
carlacaiafa@inventaeventi.com
www.inventaeventi.com
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