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sabato 3 aprile 2010

FINCHE’ AVRO’ VOCE di MALALAI JOYA (PIEMME)

Malalai Joya è una giovane donna di 34 annni afghana, che aveva solo quattro anni quando i russi invasero il suo paese, per la libertà del quale lotta ogni giorno con tutte le sue forze. Cresciuta in diversi campi profughi ha dichiarato di recente alla stampa italiana, come proprio in quei luoghi carichi di rabbia e paura, abbia avuto modo di imparare a leggere e scrivere, e abbia incitato allo studio quelle donne che ritenevano oramai finito il tempo dell’apprendimento, facendolo proprio attraverso i versi del grande Bertold Brecht. Malalai con grande sacrificio e col passare degli anni, riesce a fondare un orfanotrofio, divenendo molto popolare. Riesce, alle prime elezioni “libere”, ad ottenere un posto in parlamento, ma è solo simbolico, come simbolico è il ruolo dei 68 seggi tenuti da altrettante donne. Certo l’istruzione nelle città alle donne non è negata, ma non appena ci si sposta in provincia, la situazione è a dir poco tragica, tanto che spesso il suicidio diventa l’ultima via di fuga da un sistema socio-politico arretrato e a tratti disumano. Il libro parte dal momento in cui la sua famiglia si è rifugiata in Pakistan. Racconta la guerra civile negli anni Novanta, l’ascesa al potere dei talebani, la "guerra al terrore" degli americani, il crollo del regime talebano, dopo il quale Malalai, ha la possibilità di far parte dei delegati della Loya Jirga, il gran consiglio dell’Afghanistan che in teoria dovrebbe dirigere la nuova storia di quel paese. Dovrebbe, perché in realtà si ritrova accanto gli aguzzini di sempre. Un solo suo intervento dinanzi agli altri parlamentari ha trasformato la sua vita in un inferno. Ancora oggi Malalai è oggetto di continue minacce di morte e di continui tentativi di attentati, fino poi all’espulsione dal governo stesso avvenuta non molto tempo fa. Ormai vive una vita blindata, cambia dimora ogni giorno, gira con il burqa, proprio lei che lo combatte da sempre. “Finché avrò voce” è una cronaca di non facile lettura, che racconta i coni d’ombra di un paese ancora oggi ignoto a noi occidentali. Malalai usa le pagine del suo libro per fare i nomi dei talebani “riciclati” macchiatisi nel passato di delitti terribili, punta il dito sul Governo di Karzai, arrivato al potere con elezioni altro che libere, racconta le sofferenze delle donne afgane, parla della coltivazione dell’oppio favorita anche dagli Stati Uniti. Ed è proprio verso gli Stati Uniti che il grido di protesta di Malalai si fa più forte e contro la loro guerra al terrore, condotta contro quelle persone che in passato erano loro “alleati”. Il libro di Malalai è la fortissima protesta di un popolo calpestato, umiliato, messo in ginocchio, forse il tentativo di creare un ponte verso il futuro senza dimenticare o negare la storia e le tradizioni dell’Islam.


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