martedì 26 ottobre 2010

Sul passaggio – L’indugiare poetico nei versi di Anastasia Leo (Il suono dell'orologio, Luca Pensa Editore). Intervento di Eliana Forcignanò












Vi è nel ticchettio degli orologi l’ossessione martellante del tempo che scorre e che questi strumenti sono chiamati a misurare, a quantificare e, nel contempo, a segnare come già stato: un autentico paradosso sancire con un’emissione di suono e, dunque, con un movimento vitale – sebbene meccanico – la morte, il non più. Quando l’ora scocca, l’ora è fuggita e già Aurelio Agostino rifletteva sulla dimensione effimera del tempo: il futuro non è ancora e il presente trapassa subito nel passato, che cosa rimane se non il carpe diem di oraziana memoria, l’invito a cogliere la rosa prima che appassisca perché, come scriveva Mimnermo, siamo come le foglie che il vento disperde nello spazio di un soffio. Dì là dalle citazioni colte, esistono uomini e donne che sono o si percepiscono profondamente inadatti a vivere l’attimo: si tratta di soggetti che hanno un respiro più lungo dell’istante, la cui profonda esigenza è quella di raccogliersi estasiati dinanzi alla bellezza anche per una durata indefinita e di trincerarsi nella propria interiorità a meditare sulle inspiegabili epifanie del male per un tempo che non conosce limiti – ciò che, nel linguaggio comune, si definisce “ruminazione” – né interruzioni. Inspiegabili le epifanie del male perché il male è accidente nella persona non sostanza: qui si potrebbe obiettare che ciascuno è in grado di compiere il male e che, dopo la cacciata dall’Eden, l’umanità si trova in una condizione peccaminosa sulla quale soltanto la Grazia può intervenire, ma, allora, perché, nel ricevere il male, si soffre in maniera così accanita fino a volerlo allontanare e respingere? Se il male fosse sostanza umana, esso non dovrebbe generare tanta sofferenza nell’uomo, benché la stessa ragione, che pure appartiene alla sostanza dell’uomo, procuri talvolta sofferenza e tedio esistenziale. Forse, il male è accidente necessario cui nessuno può sottrarsi né come artefice né come vittima. Nemmeno alla morte possiamo sottrarci, ma questo non vuol dire che la accettiamo, che rinunciamo a interrogarci su di essa e a includerla nel novero dei mali anche se morire significa esser uomini, scrivere la parola fine lì dove vi è stato un inizio, anche se si tratta di una scrittura dolorosa che non vorremmo mai vergare sul foglio. Foscolo sapeva che tutto ha fine, ma quando anche gli avelli saranno erosi dal tempo, rimarrà pur sempre la poesia a esortare chi la legge o la ascolta al compimento delle “egregie cose”. Magra consolazione per i contemporanei ora che le “egregie cose” in cui impegnarsi sono finite, ammesso che, in passato, ce ne siano state in abbondanza. Si torna, così, al discorso avviato in precedenza: meglio vivere l’attimo, godere il meglio del tempo che ci è dato e non stare a interrogarsi troppo sul futuro. Progetti a lunga scadenza avvelenano l’animo perché è impossibile sapere se si realizzeranno o meno e l’attesa esacerba la pazienza, sfianca la fiducia, devasta le energie o, almeno, così accade ai più che abdicano ai loro sogni in favore di un’esistenza tranquilla e improntata al godimento delle gioie domestiche. Alcuni – pochi in verità – spiriti preferiscono l’attesa al compimento: attendere significa donare un respiro lungo alla realtà, sorbire l’agrodolce dell’immaginario, incontrare altre attese, talvolta venate di quella piacevole trepidazione che avvolge come una coltre e mantiene vivo il calore di una speranza immalinconita appena dal timore di non raggiungere mai la meta. È la storia del viandante che cammina per raggiungere la dimora dell’amata lasciata tanto tempo prima: calpestando il suolo passo dopo passo, si chiede se la donna lo aspetti serbando intatta la memoria dell’ultimo amplesso e, intanto, lui stesso ricorda il tempo trascorso insieme e si compiace di ricordarlo in maniera così nitida, quasi fosse scolpito nella sua mente. Accanto alla speranza si aggiunge il ricordo nel quale l’attesa si discioglie e si prolunga fino a divenire, nelle vicende d’amore, languore e struggimento. Tornano alla mente i carmi dei poeti ellenistici composti dinanzi alla porta chiusa dell’amata: anche in questo caso, le liriche nascono dall’attesa che i battenti si aprano al desiderio dell’amante. E il connubio di amore e morte è sempre presente nella poesia di ogni tempo, perché la poesia si colloca nel tempo: ogni istante che passa, ogni istante che trascorre senza che la porta dell’amata si dischiuda è un istante donato alla morte.

Sembra che, nei suoi versi d’esordio, Anastasia Leo (Il suono dell’orologio, Lecce 2010) abbia ben presenti queste tematiche: tempo, male di vivere, amore, morte. Il tempo che scorre inesorabile – “La vita fugge e non s’arresta un’ora” – è un tropo della tradizione poetica e letteraria internazionale: di assolutamente proprio e peculiare, nella poesia di Anastasia, vi è l’inserto di figure familiari che negano l’avvicinamento dell’ora fatidica. “La vecchia nonnina” intenta a raccontare storielle e il padre “che non si rendeva conto” – o, forse, che non gradiva rendersi conto – dell’incedere della “età oscura”, età che rimane ambigua, indefinita. Considerando la giovane età dell’autrice – Anastasia frequenta il liceo – si potrebbe credere, a tutta prima, che “età oscura” sia l’adolescenza anche se la contiguità con la parola “morte” e con il “mantello nero” che avviluppa le parole e le avvolge come in un sudario lasciano presagire un’altra fase della vita, quella prossima al trapasso. Non fa meraviglia che a questo componimento ne segua un secondo sulle “parole senza senso degli uomini”: proferire frasi che non hanno senso – là dove non si tratta di nonsensi poetici, bensì di frasi dette per superficialità, per incapacità di attendere e valutare gli esiti di un discorso o di un processo vitale – è un modo non per ingannare il tempo, bensì per smarrirlo, per disperdere il nostro e quello dell’interlocutore. La vacuità di certi discorsi esclude ed elude dal proprio seminato la riflessione sull’esistenza che dovrebbe rappresentare il nostro unico fine, prima di esser divisi dall’albero come “foglie d’autunno” – e qui ritorna Mimnermo, ma s’intravedono anche gli echi del simbolismo francese – costrette a vagolare nell’aria non avendo una destinazione. E, tuttavia, non si può tacere un interrogativo: le parole devono necessariamente avere una destinazione? La poesia ha una destinazione che non sia ecolalia, ossia ripetizione dei sentimenti e degli intendimenti del suo autore e, dunque, destinata a lui solo? A chi pensava Baudelaire quando scriveva I fiori del male e la Plath? Vi è molto di somigliante a entrambi i poeti nelle liriche di Anastasia Leo, ma non è metodologicamente corretto imbarcarsi in una misurazione delle influenze poetiche, perché la poesia è questo: continuo rimando, continua corrispondenza di pensieri, forme e ritmi che vengono attinti dalla tradizione per essere costantemente rielaborati – si veda L’angoscia dell’influenza di Bloom – e resi di nuovo in grado di comunicare qualcosa. I versi di Anastasia Leo comunicano l’attesa angosciosa della morte, del momento in cui non si è più, ma questa considerazione del momento supremo non induce a vivere meglio il tempo presente, piuttosto esorta a considerare l’inanità delle cose, il vuoto che supera l’umano affaccendarsi per avere una vita piena: piena? “Notte”, “nulla”, “impossibile”, “infinito” sono termini che ricorrono nella poesia di Anastasia Leo e che sottendono l’area semantica e psicologica della negazione. Se tutto è vano, se persino le fotografie non trattengono i volti sottoposti alla legge dell’invecchiare, rimane soltanto da vivere una vita costantemente spesa sull’orlo della negazione: io non esisto, non prego, non so e, soprattutto, niente di tutto quello che mi è accaduto mi riguarda davvero perché la mia esistenza è fatta di vuoto. Io attendo che “la morte faccia sbocciare i fiori dal mio cervello” come scriveva Baudelaire, perché la vita non ha dato loro abbastanza acqua e, perché si abbia un campo fiorito, occorrono le lacrime di chi piange sulle tombe, dinanzi ai “cancelli chiusi di un cimitero in croce” scrive Anastasia nei versi che aprono la sua raccolta densa di morte, eppure densa d’amore. Sì, amore è in questi versi nei confronti di un interlocutore non meglio precisato del quale rimane soltanto il profumo “nei pensieri di questa notte piena di sogni”: è l’innamoramento onirico tratteggiato con sapienza ancestrale dall’autrice la cui consapevolezza degli affetti oramai scardinati – “il sospiro di mia madre non mi accompagnerà nel poker della vita” – indugia, tuttavia, nel pensiero di un’altra presenza/assenza dalla quale è attinta la forza per scrivere. Qualcuno guarda e tace: nel sogno, nella realtà quando il “collo bagnato” della donna che qualcuno accarezza, perso nella contemplazione della bellezza fatta femminilità. La rievocazione dell’eterno femminino è compiuta quale sentito sacrificio alla divinità poetica: L’“America ladra degli anni Sessanta” e Wall Street non sono sterili omaggi alla Beat Generation, calchi da poetiche già affermate e consolidate, ma il tentativo – ben riuscito – di testimoniare la femminilità del paesaggio che fa da sfondo al poetare di Anastasia Leo. Quell’America con i suoi pessimi bar dei vicoli di New York, con le sue viuzze celate agli occhi dei più, con i suoi beoni saggi – Dean il Vecchio – è donna che comprende il male di vivere e lo propina in piccole dosi ai suoi abitanti, come una madre povera permette ai suoi figlioli soltanto di sbocconcellare il pane, lasciando che essi vivano il dramma della fame, perché meglio aver fame in più persone che saziarne uno e far morire gli altri. Ma il male di vivere rimane come rimane la voglia di credere in un riscatto morale che sa di eroismo, di titanismo: andare avanti con la consapevolezza dell’infelicità. Possibile? Nella poesia la risposta e la consolazione dalla fatica di vivere.

Info: info@pensaeditore.it

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