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martedì 14 giugno 2011

Il libro del giorno: Dovevamo saperlo che l’amore di Nelson Martinico (Lupo editore)












Nelson Martinico, di origini siciliane, è nato a Roma. Dopo una folgorante quanto effimera carriera da giovane promessa del pallone – interrotta a un passo dal professionismo in seguito a uno sfortunato incidente – ha fatto di tutto: camionista, barman, imbianchino, stuntman in una dozzina di spaghetti-western del periodo declinante, fatto parte di un quintetto folk sardo-siculo (alla fisarmonica). Infine ha insegnato Latino e Greco. Ha pubblicato cinque volumi di poesia. L’ultimo, un poema in terza rima dantesca, è stato adottato nelle scuole. Conduce laboratori itineranti di tecnica della poesia nei mercati rionali. Odia l’automobile. Chi volesse comunicare con lui può scrivere al suo migliore amico: pinoligotti@yahoo.it

Salvare una biografia per i posteri: questo garantisce la Polizza “Genial Biography” proposta da Nelson e sottoscritta da Pino con l’impegno di raccontare almeno quarant’anni della sua vita familiare. E si va per libera associazione di idee… dai nonni emigrati dalla Sicilia a Roma negli anni Trenta, ai traumi della guerra e alle incertezze della difficile ricostruzione, alle svolte epocali degli anni Sessanta e all’atmosfera di piombo di quelli successivi. La scrittura – unica terapia – ricostruisce esistenze, ripercorre infanzia e adolescenza nel chiassoso e a volte goliardico clima di una grande famiglia sicula di cuore generoso, nei quartieri romani della formazione; rivive i passaggi di una giovinezza tanto avida di sperimentare quanto bisognosa di nutrirsi di scoperte (la poesia, il cinema, la politica) per individuare la propria vocazione. Mentre la famiglia si allarga e la narrazione vive tra le estati siciliane, la Capitale e il Veneto, che si fa quasi patria d’adozione del protagonista, egli attinge alle donne che hanno provveduto alla sua educazione sentimentale, agli indimenticabili personaggi che con la loro stravaganza o semplicità gli hanno aperto la mente, alle proprie non sempre lineari tappe esistenziali, ai cult che hanno fatto da riferimento alla sua crescita. E la storia (le storie) si fa registro dell’evoluzione della società italiana di quegli anni: un vasto affresco di intense passioni collettive alternate ai momenti bui delle stragi e dei terremoti. Ogni evento esterno si traduce in “segnale” di vissuto, trova eco nel percorso privato incalzandolo, determina orientamenti e disorientamenti, suscita buona e cattiva coscienza nel contratto di sincerità stipulato dal narratore col suo puntiglioso alter-ego. Tra sorriso e “incazzatura” (alla De Andrè), col pudore delle pulsioni poetiche ma con il coraggio delle fragilità, l’autore intreccia il filo della propria storia nel tessuto collettivo e in anni che hanno visto la fondazione di un’Italia alla quale un’intera generazione guarda forse con nostalgia.

“STAMMI A SENTIRE, NELSON. Da qualche tempo mi perseguita un sogno. Sempre lo stesso, come nei peggiori romanzi, o come in certi film dell’orrore, sì, insomma quelle vaccate che ti fanno scendere un brivido lungo la schiena. E non so, credimi, se è un incubo, o un desiderio represso, o forse forse una censura. Sì, deve essere una censura, quella che poi scatena i conflitti, perché, vedi Nelson, certi bisogni affettivi lì stanno e lì restano, anche se li scacci. La vuoi sapere tutta? Insomma, nel sogno io mi sposo. Io, misogino conclamato, finisco con l’accettare l’idea del matrimonio, cioè dell’ordine innaturale delle cose. Perché così ho sempre ragionato, così ho sempre visto le cose, e credo nella giusta luce… Il matrimonio? una scommessa isterica, un negozio troppo virgolettato, una serenità in armi: e la colpa è di nessuno. La colpa, ho sempre pensato, è nel patto, nell’istituzione. E che mi succede in sogno? Porca troia, mi sposo. Io. E il sogno lo apri tu, Nelson, tu, da dietro questo diavolo di computer, con questo tuo ghigno da vecchio registratore, tu a preannunciarmi il disastro: «E bravo il mio scapolone! avevi voglia a dire io non mi sposo, non mi sposerò mai… Ti sposi ti sposi…». E io, il pentito, il dissociato, l’uomo dell’abiura, io a giustificarmi: «Che vuoi? la zavorra degli anni… le rughe stanno avanzando… e poi penso a lui, a mio padre, a mia madre, ai nonni, l’idea della trasmissione…» e qui si scatena la spirale, il vortice. Il sogno prende sostanza”.

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