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sabato 31 luglio 2010

Viaggio nel Salento di Maria Brandon Albini (a cura di Sergio Torsello) di Kurumuny edizioni. Prefazione di Eugenio Imbriani



















«La stessa donna che mi recitava nel Salento le strofe dei lamenti funebri in cui sentivo ribattere ad ogni verso il nome di Caronte, mi raccontava due minuti dopo come e perché figlie e nipoti sue emigrino come operaie, nelle valli del Rodano, in Svizzera, dove imparano a difendersi aderendo ai sindacati. E le stesse ragazze che si occupano della cernita del tabacco negli stanzoni dei baroni leccesi, e che spesso fanno sciopero per ottenere aumenti di salario, cantano, per ritmare il loro monotono lavoro, strofe di cinque secoli fa»: sono parole con cui, nelle pagine conclusive di Mezzogiorno vivo (Milano, Ercoli, 1965, opera uscita due anni prima in francese, Midi vivant, Paris, PUF), Maria Brandon Albini affronta un grande tema del meridionalismo, quello della trasformazione sociale e culturale, in particolare delle classi più povere; e lo fa assumendo una posizione critica, articolata, autonoma, una volta che è riuscita a sottrarsi da un lato al fascino dei luoghi e delle persone incontrate nelle regioni del sud italiano che così tanto ama, frequenta, studia, dall’altro a qualche profezia apodittica pronunciata da grandi intellettuali della sinistra italiana, relativa alla morte di quelle pratiche ed espressioni della cultura popolare che qualcuno ancora si ostinava a studiare. Brandon Albini legge invece i segnali di grande vitalità di quelle forme, che, oltretutto, nel dopoguerra hanno permesso un formidabile rinnovamento della produzione colta, dal romanzo alla poesia al cinema, che hanno sfruttato con larghezza temi e linguaggi del mondo popolare, riprendendo, peraltro la lezione di Verga, Pirandello, D’Annunzio. Data di discrimine è il 1945, quando finisce la guerra ed esce Cristo si è fermato a Eboli; il memoriale di Levi descrive un mondo trascurato, colpevolmente dimenticato nell’epoca fascista, e lo pone sotto gli occhi miopi o disattenti dei lettori borghesi e cittadini; esso accende l’attenzione, in Europa e oltreoceano, sulla Basilicata e, per estensione, sull’Italia meridionale, povera, contadina, che si direbbe ancorata a modelli di vita arcaici, addirittura precristiani, immersa in un tempo primitivo, circolare, che non impone cambiamenti. Ebbene, è facile cogliere la deriva mistificatrice di questa concezione: il mito dell’immobilismo, ricavato a torto, afferma l’autrice, dall’opera leviana, presente in molta letteratura successiva e nel neorealismo (penso, per esempio, al commento scritto da Salvatore Quasimodo per il film La taranta di Gianfranco Mingozzi), in generale, configura un discorso fatalista, cieco di fronte alle aspre condizioni sociali ed economiche che hanno rallentato o impedito i processi di trasformazione. Sappiamo bene, infatti, che nel dopoguerra il movimento contadino in Lucania era caldissimo e molto organizzato, così come in altre regioni del Mezzogiorno; conosciamo l’efficacia e i risultati dell’occupazione delle terre, conosciamo la forza d’urto dell’organizzazione delle tabacchine, particolarmente nel Salento. Per apprezzare queste contraddizioni, il potere e l’incombere dei retaggi culturali, la loro forza sottile e pervasiva e nello stesso tempo il faticoso e duro insorgere dei cambiamenti, bisognava mettersi in viaggio, programmare incontri, intavolare dialoghi con le persone del luogo. La conoscenza prodotta in questo modo, come è ovvio, non è solo libresca, e l’approccio critico tiene conto delle situazioni e dei problemi reali, vissuti. Il Viaggio riproposto in queste pagine da Sergio Torsello rappresenta in modo esemplare un approccio del genere, tanto più leggibile in quanto la scrittura ha l’andamento leggero e il piglio quasi occasionale degli appunti, onestissima, ma non ancora costretta nel rigore analitico, frutto di una rimessa in ordine di annotazioni «prese di giorno in giorno, attorno alle quali si sono annodate le mie riflessioni» non definitive: spunti che meritano altre meditazioni, luoghi che meritano dei nuovi viaggi. All’autrice interessa particolarmente la persistenza di modelli culturali arcaici in un contesto estremamente composito, laddove vecchi linguaggi e strane credenze convivono con realizzazioni di una cultura cittadina molto raffinata, le chiese barocche ospitano varianti di culti mal sottomessi alla dottrina cattolica, le leggende incrociano le storie di santi, si canta la morte con toni, gesti e parole profani. C’era un universo sommerso che conveniva esplorare, sorprendentemente ricco, e la Brandon Albini vi si immergeva lasciandosi orientare da guide sapienti e discrete, intellettuali colti, spesso giovani, studiosi della storia e delle consuetudini locali; ma se pietrefitte e lamenti funebri rinviano a un «mondo immemoriale», a «una eredità di tradizione e di civiltà rurale e magica», ecco che a Castrignano dei Greci, in casa della vecchia Concetta, prefica e maga, proprio lì, si apre il capitolo della lotta sociale, si toccano i temi dell’emigrazione e del lavoro: è lei, infatti, la donna con cui ho aperto queste poche pagine, che appare come testimone privilegiata in Midi vivant, dopo aver ricevuto la visita della scrittrice, raccontata nel Viaggio: «Son tutti emigrati in Svizzera, mi dice una delle giovani nuore di Concetta: ci vanno da marzo a novembre, anche le donne, a coltivare i campi, a potare, raccogliere frutta e legumi, a metterli in cassette, e via dicendo. Guadagnano bene, tornano qui alla fine della stagione, ripartono l’anno seguente. Dei loro salari vive la famiglia. E poi portano qui idee nuove: il sindacalismo, le leggi di difesa operaia… Impariamo a vivere». La realtà degli «interessi presenti» si fa più forte dei meccanismi tradizionali, ed è interessante scoprire giovani donne impegnate a fuggire le pratiche più antiche, la mancanza di istruzione, a cercare maggior sicurezza nel lavoro. Brandon Albini, coglie, insomma, l’avvio di una vera e propria rivoluzione, di un cambiamento radicale, di un movimento che subirà una forte accelerazione; le formiche, per citare Tommaso Fiore, non sanno star ferme: esse riescono in imprese che spaventerebbero un popolo di giganti. Alcune leggende parlano della presenza dei giganti nel Salento, ma nessuno di essi è sopravvissuto.

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